Le scelte tragiche

SANDRO SPINSANTI

Istituto Giano per le Medical Humanites, Roma.

Pervenuto e accettato il 7 aprile 2020.

Riassunto. Il documento della SIIARTI: “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione” ha suscitato reazioni contrastanti. Sullo sfondo emergono le “decisioni tragiche” che i clinici possono essere chiamati a prendere: quali pazienti accettare e quali rifiutare nelle unità di rianimazione, che l’epidemia ha rivelato di misura inferiore alle necessità. In particolare, siamo invitati a riflettere sul concetto di responsabilità nelle scelte. A fronte di un’accezione medico-legale si profila una responsabilità etica, che si traduce nell’esplicitazione dei criteri con cui si fanno le scelte e nell’assunzione del peso morale delle stesse. Lo scenario delle scelte tragiche conferma l’intuizione contenuta nella figura mitologica del “guaritore ferito”.

Parole chiave. Etica clinica, responsabilità etica, scelta.

The tragic choices.

Summary. The SIIARTI document: “Recommendations of clinical ethics for admission to intensive treatments and for their suspension” provoked mixed reactions. In the background the “tragic decisions” that clinicians can be called upon to make emerge: which patients to accept and which to reject in resuscitation units, which the epidemic has revealed to be less than necessary. In particular, we are invited to reflect on the concept of responsibility in choices. In the face of a medico-legal meaning, an ethical responsibility looms, which translates into the explanation of the criteria with which the choices are made and the assumption of their moral weight. The scenario of tragic choices confirms the intuition contained in the mythological figure of the “wounded healer”.

Key words. Clinical ethics, medical liability, behavior choice.

La vita impone delle scelte. Alcune sono tragiche. Una delle più celebri è quella raccontata dal film La scelta di Sophie di Alan Pakula (1982). La protagonista in un campo di sterminio è forzata da un ufficiale nazista sadico a scegliere quale salvare e quale mandare a morte tra i suoi due figli. La sua vita ne sarà distrutta per sempre. Lo scenario di scelte tragiche si presenta anche in medicina. Proprio con questo titolo: Scelte tragiche1 ha fatto epoca una riflessione proposta dal giurista italo-americano Guido Calabresi. Apparso nell’edizione originale nel 1978, ha suscitato un vivacissimo dibattito. Il contesto era quello della bioetica delle origini, chiamata a dare indicazioni a una medicina clinica confrontata con risorse insufficienti per far fronte a tutte le domande. Non si trattava né di guerre, né di epidemie, ma di un numero eccessivo di cittadini che necessitavano di strumentazioni cliniche per sopravvivere. Qui si affacciava l’incubo delle scelte: a chi assicurare la dialisi, tra i tantissimi nefropatici? Con quale criterio riservare all’uno o all’altro cardiopatico il cuore da trapiantare?

La riflessione bioetica dell’epoca ha prodotto un’ampia letteratura su come cercare di conciliare l’universalismo della destinazione delle risorse con le esigenze di una gestione economica (l’economia si affaccia, per definizione, quando non c’è tutto per tutti…). Anche al grande pubblico è giunta almeno un’eco di quei dibattiti, sotto forma delle scelte proposte dallo stato americano dell’Oregon o dal modello dei QUALY, ovvero di anni di vita attesa di buona qualità. Dispute tra intellettuali, per lo più.

In questo contesto sociale erano sorti, come novità per aiutare nell’inusuale complessità delle scelte, i comitati etici per la clinica. Il loro scopo non era di suggerire criteri ai politici e amministratori che dovevano gestire le risorse, bensì di essere di supporto ai clinici che dovevano decidere al capezzale del malato. Su queste strutture e sui loro criteri per arrivare alle decisioni si è riversata molta ostilità da parte di alcuni partecipanti al dibattito. Sono stati accusati di arrogarsi delle prerogative che non competevano loro; si è cercato di squalificarli con l’etichetta di “tribunali di Dio”, che decidevano al posto suo chi dovesse vivere e chi morire…

La difficoltà di esplicitare i criteri con cui fare le “allocazioni” – questo il termine in uso – delle risorse scarse è rimasta. La medicina conosceva quel dramma da molto tempo nello scenario di guerra: innumerevoli soldati feriti e risorse terapeutiche limitate. Con quale criterio scegliere? Per quanto cinico possa apparire, i medici erano invitati a orientarsi in modo crudelmente utilitaristico: dovevano dare la priorità ai soldati che erano in grado di tornare a combattere. Perché bisognava vincere la guerra. Non può essere questo il criterio in situazioni di scarsità creata da catastrofi, come a buon diritto può essere considerata un’epidemia. O l’attuale pandemia del COVID-19.

Il documento elaborato in questo contesto dagli anestesisti-rianimatori della società scientifica SIIARTI – Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione – ha assunto come punto di partenza le “condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”. Facendo tesoro di riflessioni etiche elaborate nel contesto della medicina delle catastrofi, ha suggerito ai colleghi anestesisti-rianimatori di assumere come criterio delle scelte che sono obbligati a fare quello di “privilegiare la maggiore speranza di vita”. Le critiche sono state avanzate sia in nome del diritto – come se fosse messa in dubbio la rivendicazione di ogni persona ad avere le cure necessarie, indipendentemente dalle compromissioni dello stato di salute – sia in nome dell’etica. In sintesi, le raccomandazioni sono state contestate difendendo tanto il diritto alla salute, quanto la dignità della vita umana, in qualunque condizione. Le argomentazioni critiche si sono basate su una semplificazione delle raccomandazioni stesse, come se suggerissero di porre burocraticamente, senza un ragionamento clinico relativo all’appropriatezza, un limite di età all’ingresso in terapia intensiva, sulla base del principio di probabilità di sopravvivenza e di anni di vita salvata. E dunque di un implicito ragionamento utilitarista, che considera certe vite come degli scarti, non degne di protezione.

Interpretare le raccomandazioni in questo senso significa farne una caricatura, utile solo per la polemica e per enfatizzare in senso apologetico le proprie convinzioni etiche. È vero che una delle motivazioni addotte dagli estensori per giustificare il documento può essere discutibile. O quanto meno va precisato il significato dell’indicazione, liberandola da fraintendimenti. Lo scopo delle raccomandazioni è individuato, infatti, nel “sollevare i clinici da una parte delle responsabilità nelle scelte”. Sarebbe un impoverimento della tensione etica che sottostà a queste drammatiche situazioni se le raccomandazioni venissero intese in chiave di medicina difensiva o, al più, come scarico di coscienza. I professionisti che si trovano a dover operare queste scelte hanno bisogno non di meno, ma di più coscienza. Ovvero di un accresciuto senso di responsabilità, in senso proattivo: non “io non mi assumo la responsabilità” (o la responsabilità attribuita alla società scientifica che ha formulato le raccomandazioni), bensì una responsabilità accresciuta, come quella che si esercita nei confronti di persone fragili e incapaci di provvedere a sé stesse; come la responsabilità dei genitori nei confronti dei propri figli, o dei medici e infermieri nei confronti dei malati, appunto.

Sollevare da responsabilità non deve essere quindi inteso come viene utilizzato nel linguaggio comune, ovvero in senso di sgravio di fronte alla legge. La responsabilità non equivale a chiamarsi fuori; è invece tanto presente nei professionisti sanitari che si trovano in prima linea che si dispongono a esplicitare e condividere i criteri con cui si pongono di fronte alle scelte che incombono su di loro. E dalle quali non possono sottrarsi. In questo processo di condivisione dei criteri di scelta individuiamo semmai il tentativo di “sollevare” i clinici dal peso morale di quelle decisioni.

I professionisti che devono drammaticamente scegliere a chi riservare le risorse salvavita insufficienti per tutti vengono a trovarsi su un terreno su cui incombe un senso di colpa. Non possono salvare tutti; alcuni li devono inevitabilmente lasciare al loro destino. A ben vedere, questa è la situazione con cui è confrontata la medicina, dentro e fuori le catastrofi e le pandemie. Perché, prima o poi, anche le cure più efficienti falliscono e la morte bussa alla porta. Su tutti, anche sulle persone meglio curate. Anche quando il medico può dire: “abbiamo fatto tutto il possibile”. Forse è per questo che la mitologia greca aveva creato l’immagine del “guaritore ferito”, identificato nel centauro Chirone.

Chirone è una figura semidivina; a lui è stata fatta risalire l’arte medica. La narrazione mitologica sottolinea il paradosso di un guaritore, ferito a sua volta, che non può guarire sé stesso. È la figura più contraddittoria di tutta la mitologia classica: di natura animale e apollinea insieme; sofferente di una ferita mortale, malgrado sia una divinità; abile terapeuta, ma impotente di fronte alla ferita essenziale che colpisce l’uomo. Il mito offre una condensazione simbolica, dove si leggono in trasparenza tutte le grandezze e le miserie di qualsiasi attività terapeutica.

All’immagine del guaritore ferito si è fatto ricorso in diversi contesti. Il più frequente è quello del particolare peso connesso con la cura, che può indurre la sindrome del burn out. La cura, e soprattutto il prendersi cura, rischia sovente di logorare le riserve psichiche e morali della persona che vi si dedica, così da provocare un pericoloso cortocircuito. Perché la cura, oggi come ieri, comporta un grave carico. Specialmente in alcune situazioni: pensiamo all’assistenza di cui hanno bisogno i bambini gravati da un serio handicap che impedisce loro di raggiungere l’autosufficienza, oppure agli anziani che l’autosufficienza l’hanno perduta. Nei casi estremi: pensiamo allo stress connesso con il prendersi cura di persone afflitte da demenza o da malattie mentali. Siamo brutalmente confrontati con queste situazioni quando le cronache ci riportano di omicidi o suicidi indotti da uno stress di cura diventato ingestibile.

Anche l’esercizio della medicina per situazioni acute può indurre un’emorragia di risorse interiori, quando è accompagnata da frequenti fallimenti o espone in modo particolarmente crudele al dolore altrui (valga per tutti l’oncologia pediatrica). Tutto ciò fa parte integrante della medicina di sempre e presumibilmente non potremo eliminarlo neppure dalla medicina di domani. Eppure, questo particolare gravame non ha mai dissuaso i migliori, tra gli uomini e le donne di ogni epoca, dal dedicarsi alla guarigione dei malati: come medici, infermieri, psicologi, riabilitatori, assistenti sociali.

Lo scenario delle scelte tragiche apre una finestra su una ferita ancor più profonda che affligge il guaritore: è ferito dalla sua inevitabile impotenza. Una frase inquietante nel film di Ingmar Bergman: Il posto delle fragole (1957) continua a interrogarci. Il vecchio professore di medicina sogna di dover subire un esame; non sa rispondere alla domanda quale sia il primo dovere del medico. L’esaminatore suggerisce lui la risposta: “Il primo dovere del medico è di chiedere perdono”. Perdono di che cosa?, si sono chiesti in tanti. Forse del fatto che, prima o poi, la sua promessa di tenere lontana la morte fallisce. Per questo la pratica della cura può generare in profondità sensi di colpa in chi vi si dedica. A meno che il terapeuta non si sia confrontato con la propria limitatezza, l’abbia accettata e interiorizzata. Qui evidentemente lasciamo l’ambito etico delle scelte tragiche per inoltrarci nel campo della spiritualità.

Nel periodo in cui ha infierito l’epidemia di coronavirus si è parlato molto delle ragioni della scarsità di risorse indispensabili che la pandemia ha portato alla luce. Dipende certo dalle scelte di politica sanitaria, che per troppi anni hanno puntato al risparmio, con il budget come idolo. Ma anche dai cittadini che quelle politiche hanno avallato, sedotti dalla promessa di diminuzione delle tasse. Per non parlare dei tanti evasori, che hanno fatto mancare le risorse da investire in sanità. Se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che le responsabilità sono numerose e differenziate: in modo diverso, ma ce le dobbiamo assumere tutti.

I sensi di colpa per queste carenze che remotamente dipendono da tutti noi, e che si traducono nelle scelte tragiche che ci angosciano, dovrebbero essere ben spalmati su tutta la società. Invece di cercare di rifilarli ai medici che devono inevitabilmente assumere quelle decisioni, insinuando che non rispettano i diritti fondamentali delle persone o che sono moralmente insensibili. Attribuire a coloro che hanno formulato le raccomandazioni per i colleghi che si trovano nella prima linea dell’accesso alle Rianimazioni, per condividere i criteri con cui vengono prese delle decisioni inevitabili, un’insensibilità giuridica o etica non è solo ingiusto; significa procurare un’ulteriore, gratuita ferita a guaritori feriti.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Calabresi G, Bobbit P. Scelte tragiche. Milano: Giuffrè editore, 2006.