Hospice-COVID: cinque settimane di trasformazione
per rispondere ad uno tsunami

MASSIMO PIZZUTO, FRANCESCO CROCE, NAUSIKA GUSELLA, SARA MARIA LODI RIZZINI, ROBERTO SCARANI,
CAMILLA LUCHESINI, MATTEO LONGO, BETTINA ULLRICH, LORENZO ZAPPARI, NORMA MONZANI,
GRETA PAGANI, FRANCO RIZZI

UO Cure Palliative e Terapia del Dolore, Hospice; P.O. Bassini, Azienda Socio Sanitaria Territoriale Nord Milano.

Pervenuto il 10 aprile 2020. Accettato il 14 aprile 2020.

Riassunto. Questo lavoro è il racconto di come la nostra Unità di Cure Palliative situata nell’Area Metropolitana di Milano (Lombardia) ha affrontato l’epidemia di SARS-CoV-2: l’Hospice si trova all’interno dell’Ospedale Bassini di Cinisello Balsamo, che sin dai primi momenti dell’emergenza si è convertito in una struttura completamente dedicata alla gestione e alla cura globale di questa tipologia di malati. Questo ha determinato una richiesta di compartecipazione alla cura di quei malati che hanno virato verso un’evoluzione infausta della patologia. Come per le altre figure professionali nella sanità, anche i palliativisti hanno dovuto raccogliere la sfida di ampliare il proprio bagaglio di conoscenza e competenze per far fronte ad una tipologia di pazienti mai vista finora. I dati raccolti nel presente studio mostrano una radicale trasformazione dell’attività clinica e dell’intensità del lavoro quotidiano, sotto molteplici aspetti: strutturale (aumento dei posti letto Hospice), organizzativo (aumento dei ricoveri e della presenza di personale, implementazione di procedure specifiche per la sicurezza, riorganizzazione degli spazi), clinico (gestione di pazienti con quadro rapidamente evolutivo). L’aspetto relazionale e comunicativo, stravolto dalle necessità di isolamento imposte dalle misure per il contenimento dei contagi, è stata la sfida più difficile da affrontare sia a livello pratico sia dal punto di vista del sentire di noi operatori.

Parole chiave. Cure palliative, dispnea, sedazione palliativa, SARS-CoV-2, polmonite virale.

Hospice-COVID: five weeks of transformation to face a tsunami.

Summary. This work is a narrative paper about how our Palliative Care Unit faced the outbreak of SARS-CoV-2 in Milan Metropolitan Area (Lombardy, Italy): the Hospice is settled in Bassini Hospital (Cinisello Balsamo) that was completely reconverted into a full-CoVid facility from the very beginning of the emergency in Italy. Therefore we were requested a participation in the clinical management of those patients that unfortunately worsened towards an irreversible poor prognostic status. As for each different health professional, palliative care specialists had to face the challenge of widening and improving knowledge and skills to cope with a kind of patient that we had never seen before. The data show a radical change in clinical activity and in daily workload, regarding many different aspects: structural (increase in number of available Hospice-beds), organizational (increase in number of admissions and in presence of staff, implementation of safety procedures, reorganization of work spaces), and clinical (evaluation and management of rapidly deteriorating patients). Relational and communicative issues were distorted by the need of forced isolation imposed by the containment measures and were therefore the most difficult challenges both practically and for the feelings of health care professional.

Key words. Palliative care, dyspnoea, palliative sedation, SARS-CoV-2, viral pneumonia.

Introduzione

A partire dall’ultima settimana di febbraio 2020 il numero di casi di infezione da SARS-CoV-2 in Italia, e in Lombardia in particolare, è esponenzialmente aumentato con lo sviluppo di forme infettive polmonari rapidamente evolutive verso quadri clinici di grave distress respiratorio e, dunque, di ricovero ospedaliero: nel corso dei primi giorni di marzo fino al 10% dei pazienti necessitava di una approccio rianimatorio e i rimanenti, frequentemente, di un sostegno respiratorio avanzato non invasivo1-4. Per questo motivo, per far fronte all’emergenza, la risposta sanitaria in Lombardia si è inizialmente focalizzata sulla riorganizzazione delle strutture ospedaliere coinvolgendo, in parte e in vario modo (ricovero, attività consulenziale), anche diverse Unità di Cure Palliative nei territori più colpiti dall’epidemia ma non solo5. Un riassetto della rete territoriale, in particolare delle cure palliative (CP), è arrivato più tardivamente con indicazioni relative alle modifiche del consueto modello di erogazione domiciliare (UCP-Dom) ma anche specificamente orientato alla cura della terminalità di questi malati infettivi (UCP-Dom CoViD)6.

La nostra Unità Operativa di Cure Palliative ha la sua sede presso l’Ospedale Bassini di Cinisello Balsamo e copre il bisogno di CP domiciliari attraverso due Unità domiciliari (UCP-Dom Farini e UCP-Dom Bassini) e di ricovero Hospice per una popolazione di circa 600.000 abitanti che risiedono nei sei Comuni dell’area Nord-Milano e nella città di Milano.

Il presente lavoro si è posto l’obiettivo di raccontare il ruolo che ha avuto un Hospice della provincia milanese, nel contesto di una più generale riorganizzazione ospedaliera, per fronteggiare la situazione di emergenza e descrivere le caratteristiche dei pazienti in fin di vita qui ricoverati nel corso delle prime cinque settimane della pandemia.

Trasformazione strutturale

A cinque settimane dall’inizio della pandemia l’Hospice si è completamente trasformato in termini strutturali, organizzativi e per tipologia di pazienti assistiti. L’intera struttura ospedaliera ha subìto un profondo cambiamento e attualmente conta 204 posti letto internistici e 22 di rianimazione completamente dedicati ai malati affetti da polmonite correlata a SARS-CoV-2. L’Hospice, in ragione della pressione di pazienti affetti da malattia a potenziale elevata letalità in arrivo dai territori dell’area Nord Milano ma anche dalla provincia di Bergamo, poco distante e tristemente nota per i disastrosi effetti della pandemia, ha dovuto incrementare la ricettività passando da 10 a 22 letti (11 stanze a due letti) con la necessità di installare in ogni stanza la doppia erogazione dell’ossigeno. Fin dalla prima settimana di marzo, l’Hospice ha adottato stringenti misure di “isolamento protettivo” con la creazione di aree separate e dedicate a vestizione e svestizione del personale e la necessità di sanificare regolarmente ogni locale, sanitario e non, della Struttura. Il personale, costituito da medici, infermieri, operatori sociosanitari e psicologi, è stato adeguatamente istruito in tempi brevi riguardo all’utilizzo corretto dei dispositivi di protezione individuale disponibili ed è stato necessario occuparsi di una rapida formazione di cure palliative per il personale infermieristico in aiuto da altri contesti assistenziali per sostenere il carico di pazienti aggiuntivo.

Il riassetto organizzativo

A partire dal primo giorno di marzo 2020 l’Hospice ha ricoverato 78 pazienti, il 79% dei quali con quadro di terminalità direttamente correlata alla polmonite virale; il rimanente 21% era costituito da malati oncologici (n=12) e non oncologici terminali (n=4). Rispetto al dato storico dei ricoveri mensili il numero è quadruplicato nel mese di marzo, evento che ha determinato un carico di lavoro straordinario relativo a ricoveri e decessi rispetto alla normale routine pre-CoViD.

Nelle primissime fasi dell’emergenza, quando i ricoveri in ospedale saturavano le capacità ricettive e vi era la necessità di accelerare i trasferimenti dei malati nel setting terapeutico più adeguato, i medici dei reparti trasferivano direttamente i malati in Hospice con il criterio condiviso che ci fosse stata una decisione collegiale in reparto in tal senso per l’inopportunità di procedere con ulteriori invasività e per prevedibile prognosi infausta. Successivamente, si è instaurata una più stretta collaborazione coi reparti nel processo di decision-making, valutando quali malati trasferire e in quali fosse più opportuna una consulenza palliativa in reparto; è stato, inoltre, avviato un programma di formazione indirizzato al personale dei reparti, per meglio supportare le difficili scelte gestionali sul piano clinico ed etico.

Tutti i pazienti sono stati testati con tampone per SARS-CoV-2, ma ben 12 dei 62 pazienti con quadro clinico e radiologico suggestivo per polmonite virale sono risultati negativi al tampone: ciò ha determinato, a partire dalla seconda settimana, la necessità di impostare una forma di isolamento differenziato, identificando all’ingresso delle camere i pazienti come “COVID-positivi” (triangolo rosso), “COVID-in attesa esito tampone” (triangolo arancione) e “COVID-sospetti” (triangolo giallo) in una logica di mantenere, da una parte, un elevato livello di protezione per gli operatori e, dall’altra, cercare di garantire un flusso di lavoro dai pazienti “dubbi” a quelli senz’altro “positivi”.

Il fatto che l’Hospice fosse inserito nel contesto di un ospedale identificato fin dall’inizio come “COVID” ha determinato che esso diventasse la struttura di trasferimento dei pazienti che non rispondevano ai trattamenti di supporto vitale nei reparti, subissati dalle richieste di ricovero dal Pronto Soccorso dedicato all’emergenza infettiva. In altri tempi, molti dei pazienti ricoverati in Hospice sarebbero stati probabilmente gestiti in consulenza palliativa direttamente nei reparti ospedalieri ma nelle due settimane centrali dell’emergenza i ricoveri ospedalieri sono stati numericamente tali da imporre la partecipazione diretta dei posti in Hospice nel computo generale della disponibilità di posti letto ospedalieri.

Si è trattato di uno stravolgimento completo sotto numerosi punti di vista dell’attività di un Hospice che fino a pochi giorni prima della pandemia aveva ricoverato malati prevalentemente oncologici e, in parte, malati affetti da patologia cronica terminale, con una degenza media di 14 giorni. La figura 1 riassume i dati di ricovero effettuati tra l’1 marzo e il 7 aprile 2020, in termini di tipologia di pazienti ricoverati (polmonite in COVID-19 o altro motivo di ricovero) e di numerosità dei decessi. Pur avendo messo a disposizione undici stanze con doppio posto letto il numero di pazienti contemporaneamente ricoverati non è mai salito oltre i sedici ma con un ricambio continuo, come evidenziato in figura, in particolare per le due settimane centrali di marzo. La degenza mediana dei pazienti ricoverati è risultata pari a 5 giorni ma se si considerano solo i pazienti con polmonite virale il suddetto valore mediano è risultato pari a 3. Nel periodo considerato il 92% delle giornate è stato caratterizzato da almeno un ricovero, il 35% da almeno 3 ricoveri contemporanei e l’84% da almeno un decesso.

La durata dei ricoveri, che in condizioni normali avremmo considerato inappropriata per un ricovero in Hospice, non è che lo specchio di una realtà che ha dovuto fornire una risposta organica all’emergenza sanitaria: allestendo un Pronto Soccorso dedicato, aumentando da 6 a 22 i posti letto di rianimazione, trasformando la maggior parte dei reparti (medicina, chirurgia, chirurgia breve, cardiologia, nefrologia, neurologia, subacuti, urologia) in reparti attrezzati per la gestione dei pazienti infettivi con vari livelli di gravità e, non ultimo, l’Hospice per l’accoglienza dei malati non rispondenti ai trattamenti di supporto vitale e caratterizzati da un quadro sintomatologico di grave sofferenza (o provenienti da Pronto Soccorso in condizioni cliniche già gravemente compromesse).




La complessità organizzativa ha imposto che il personale medico presente in Hospice passasse da 1 a 3 unità nelle settimane più critiche per l’assistenza diretta e i numerosi aspetti organizzativi di carattere generale tra cui, in particolare: 1. la consulenza quotidiana nei reparti ospedalieri; 2. la sorveglianza degli operatori (4 su 24 con diagnosi certa o presunta di infezione da Coronavirus-19); 3. la definizione delle strategie relative alla realizzazione e alla gestione burocratica dei tamponi diagnostici in Hospice e UCP-Dom; 4. l’aggiornamento continuo delle procedure interne in relazione alle linee guida disponibili e alle direttive aziendali; 5. la richiesta, i controlli di approvvigionamento e la distribuzione controllata dei dispositivi di protezione individuale; 6. l’organizzazione di un breve corso di aggiornamento per i medici internisti dei reparti sul trattamento dei sintomi e la gestione di tutti gli aspetti della sedazione palliativa; 7. la riorganizzazione del modello assistenziale domiciliare dei circa 50 pazienti in carico, alcuni dei quali risultati positivi al tampone effettuato direttamente dalle nostre équipe di assistenza domiciliare.

I pazienti: quadro clinico e terapia

La tabella 1 riassume le caratteristiche epidemiologiche dei pazienti ricoverati: prevalentemente uomini (62%), anziani e grandi anziani con un’età media di 85 anni (range: 68-99 anni), frequentemente affetti da due o più comorbilità rilevanti. La storia clinica correlata alla polmonite virale e di percorso ospedaliero fino al ricovero in Hospice sono riportati nella tabella 2. Circa un quarto dei pazienti proveniva dal domicilio (tramite Pronto Soccorso o per accesso diretto in Hospice in quanto pazienti oncologici assistiti dalle nostre due UCP-Dom): nessuno di questi è stato sottoposto a ventilazione invasiva ma unicamente a ossigenoterapia ad alti flussi mediante maschera con reservoir/ventimask; i rimanenti tre quarti sono giunti in Hospice trasferiti dai reparti internistici dove, per la gravità del quadro clinico, il 19% non era stato ritenuto candidabile ad alcun tipo di supporto ventilatorio mentre per il rimanente 81% era stato fatto almeno un tentativo, rivelatosi poi infruttuoso, di ventilazione tramite CPAP.

Dal punto di vista clinico (tabella 3), al momento del ricovero, circa un terzo dei 62 pazienti CoViD era febbrile (34%) e presentava un valore medio di saturimetria dell’ossigeno dell’81% (range: 60-96%) nonostante la somministrazione di ossigeno ad alti flussi (reservoir/ventimask); il 55% dei pazienti presentava un discreto livello di coscienza (valori 1 o 2 su scala di Rudkin), il 32% soporoso ma risvegliabile allo stimolo verbale e il rimanente 13% con un quadro di grave compromissione della coscienza.




Il quadro clinico era, come prevedibile, dominato dalla dispnea, continua e gravosa nel 71% dei pazienti, e in parte da uno stato di distress psichico (23%). Oltre la metà dei pazienti, inoltre, presentava un livello di intensità del dolore mediamente pari a 4 (NRS o Pain AD) con range compreso tra 1 e 8. La compromissione del contenuto della coscienza è risultata frequente in termini di allucinazioni (episodiche 11%, continue 7%) e di agitazione psicomotoria (episodica 27% e continua 21%).

Al ricovero per tutti i pazienti la terapia farmacologica è stata impostata per via endovenosa con farmaci variabili per tipologia e dosi a seconda del quadro clinico (tabella 3). I farmaci sono stati somministrati a boli o in infusione continua tramite pompa elettronica o elastomerica. Tutti i pazienti hanno ricevuto un trattamento di base con morfina (dose media/die = 30 mg; range: 16-60 mg) in infusione endovenosa continua variabilmente associato a metoclopramide (48% dei casi; dose media/die = 20 mg; range: 20-40 mg), midazolam (85% dei casi; dose media/die = 20 mg; range: 15-60 mg), joscina butilbromuro (56% dei casi; dose media/die = 60 mg; range: 20-120 mg), droperidolo (25% dei casi; dose media/die = 3 mg; range: 2,5-7,5 mg) e clorpromazina (2% dei casi; dose/die = 25 mg). Un trattamento con eparina a basso peso molecolare è stato mantenuto nel 25% dei pazienti ricoverati e un terzo di essi è stato moderatamente idratato per via parenterale; per il 38% dei casi è stata impostata una terapia con paracetamolo fisso endovenoso (2 gr/die) e in un quinto dei casi è stato confermato un precedente trattamento con diuretici e/o antibiotici (prevalentemente ceftriaxone 2 gr/die).

Come precedentemente descritto, l’evoluzione infausta è stata rapida per la maggior parte dei pazienti giunti in Hospice con una degenza mediana di soli tre giorni. Nel corso delle ore successive al ricovero la terapia veniva continuamente rimodulata con sospensione di alcuni trattamenti farmacologici e l’adeguamento di quelli indispensabili al controllo della sintomatologia dispnoica e neuropsichica. La tabella 3 riporta la situazione clinico-sintomatologica nelle ultime 12-24 ore di vita dei pazienti assistiti per i quali si otteneva un buon controllo della sintomatologia anche attraverso un progressivo innalzamento dei livelli dei farmaci sintomatici e sedativi (tabella 4).

La sfida sul piano delle relazioni

L’Hospice si è trovato dunque trasformato, come si diceva, sotto molti punti di vista: svuotato dei familiari, dei volontari, delle attività diversionali; un Hospice dove al contatto “fisico” con i malati è risultata tristemente necessaria l’interposizione di guanti, mascherine, camici, cuffie, calzari, visiere, ossia di quei dispositivi di protezione ma anche di ostacolo al vedere, ascoltare e toccare. Per far fronte a questi stravolgimenti relazionali si è cercato di mantenere un contatto umano, seppure virtuale, con e tra pazienti e familiari tramite telefonate e videochiamate giornaliere gestite dalle psicologhe e dai medici nelle ore pomeridiane: questa, dunque, l’unica e preziosa possibilità di relazione “4.0”, soprattutto in quelle frequenti condizioni nelle quali, se anche si fosse potuto, la visita del familiare risultava impedita dalla sua stessa quarantena o dalla lontananza (diversi i pazienti della provincia di Bergamo).




Questa nuova forma di “relazione quotidiana” è stata vissuta dai medici e dalle psicologhe come un momento molto intenso dal punto di vista emotivo, in particolare nelle situazioni in cui i familiari chiedevano di vedere semplicemente la salma o il paziente agonico oppure nei momenti di raccoglimento per la benedizione officiata dal cappellano dell’ospedale. Era necessario garantire a tutti la possibilità di un contatto visivo, di una partecipazione al commiato, di poter comprendere quanto stava avvenendo e permettere, per quanto possibile, un’adeguata elaborazione del lutto. La relazione mediante videochiamata è stata implementata sin dai primi giorni dell’isolamento ed è stata realizzata per oltre il 70% dei pazienti ricoverati: nei rimanenti casi si è, comunque, mantenuto un contatto telefonico con le famiglie che, in qualche caso hanno chiesto una fotografia del malato oppure di fargli pervenire un messaggio vocale registrato, anche se sedato. Nei casi, frequenti, in cui si è reso necessario impostare una sedazione palliativa, si è cercato di preparare preventivamente i familiari alle immagini che sarebbero loro giunte, partendo da un’attenta conoscenza e lettura di ogni storia di malattia. Le videochiamate hanno avuto spesso un significativo effetto tranquillizzante dei pazienti vigili ma disorientati e spaventati dalla condizione di isolamento e alcuni pazienti superficialmente sedati hanno mostrato segni di recepimento attraverso l’emissione di parole, movimenti o modifiche della mimica facciale. Peraltro, la comunicazione mediante videochiamata ha anche permesso ai familiari di continuare a rivestire un ruolo di cura, offrendo loro la possibilità di vedersi come parte attiva, seppure a distanza, del processo di accompagnamento.

Il lavoro delle psicologhe si è indirizzato, dunque, nei tentativi di “ripristino” dei legami familiari troncati dalle regole dell’isolamento imposto e subìto: è prevedibile una impennata dei lutti patologici esacerbata anche solo dalla impossibilità di svolgere un rito funebre tradizionale. In questa fase emergenziale le psicologhe hanno stabilito di contattare tutti i familiari dei pazienti al momento del ricovero e di stabilire con essi un raccordo periodico secondo le necessità espresse dai familiari stessi e iniziando un’elaborazione telefonica del lutto, lavorando per esempio su ansia, senso di colpa, rabbia e depressione reattiva. In questa pandemia, il già delicato lavoro col paziente e la famiglia, si è reso più complesso dalla storia familiare attuale che ha visto molte famiglie coinvolte in più di un lutto contemporaneamente. In altri casi mentre uno dei coniugi moriva in Hospice, era necessario mantenere i contatti con i figli che facevano da ponte all’altro genitore anch’egli ricoverato nel nostro o in altri ospedali. Sono frequentemente emerse domande circa la comunicazione al coniuge superstite o a un figlio comunque ricoverato e fragile, risposte costruite caso per caso partendo dalle risorse e dalla storia familiare attuale e passata.

In questo contesto di tragicità umana anche il personale si è trovato in grande difficoltà, in parte travolto dalle emozioni, in parte colpito e consapevole di trovarsi nella stessa dimensione di umano pericolo sperimentata da molte famiglie. Lavorare in situazione di emergenza ha esposto gli operatori ad un elevato rischio di burn out per la perdita di abitudini lavorative ormai consolidate, per il peso di una turnistica più serrata ma anche per la necessità di dover imporre regole limitative ai familiari e ai pazienti nella consapevolezza di poter provocare loro una sofferenza emotiva. Oltre a ciò tutta la gestione degli spazi familiari/lavorativi è stata compromessa sia per la necessità di coprire i turni sia per la volontà degli operatori di proteggere i propri familiari dal rischio infettivo del quale si sentono portatori a causa del lavoro. L’intera Unità Operativa ha reagito al sovra-lavoro con spirito combattivo anche se non sono mancate situazioni di tensione legate, in particolare, agli aspetti della protezione individuale: lo spettro delle reazioni osservate ha compreso la paura, talvolta mutata in ansia o rabbia di alcuni operatori nel dover fronteggiare un nemico invisibile o, all’opposto, l’iperattività, talvolta ipomaniacale di altri con una apparente riduzione della percezione del limite. In entrambe le situazioni il rischio di un crollo emotivo era costantemente presente. E tutto ciò, purtroppo, nella limitazione del filtro delle consuete riunioni d’équipe settimanali e delle supervisioni psicologiche di gruppo: l’intervento delle psicologhe si è pertanto concentrato su colloqui individuali e alcuni interventi per piccoli gruppi di mindfulness.

Conclusioni

Ci voleva una pandemia per focalizzare la nostra attenzione sul ruolo delle cure palliative nell’ambito delle emergenze sanitarie sebbene documentata in letteratura7,8. La nostra équipe si è resa conto, fin dai primi giorni dell’emergenza sanitaria, che anche il mondo delle cure palliative era chiamato a rispondere con misure nuove e straordinarie sotto molteplici profili. Innanzitutto, con la consapevolezza e l’accettazione di non essere un universo che poteva restare utopisticamente e idealmente libero dal problema, come confermato dal rilievo di casi sia in assistenza domiciliare che in Hospice fin dai primi giorni dell’epidemia.

Il nostro ospedale, inoltre, si è rapidamente trasformato in un centro di riferimento per il ricovero di pazienti COVID e la nostra Unità Operativa ha attivamente partecipato al coordinamento dei reparti ospedalieri per garantire la cura di questi sotto ogni profilo e aspetto, in un’ottica di assistenza globale.

L’aspetto strutturale e organizzativo ha subìto uno straordinario impatto sotto due profili: il dato numerico, con numero di posti letto disponibili più che raddoppiati e numero di ricoveri quadruplicati rispetto alla normale attività, e il dato procedurale, con la messa in atto di protocolli per garantire l’assistenza ai malati e la sicurezza degli operatori.

Anche l’aspetto terapeutico e gestionale è completamente cambiato. Col passare dei giorni si sono ridotti fino a scomparire i ricoveri per “altri motivi”, sia per la pressante richiesta dei reparti saturi di malati anche in fase terminale e non più suscettibili di ulteriori invasività, sia perché la limitazione pressoché totale degli accessi dei familiari ha portato ad indirizzare malati tipici della nostra abituale attività verso altre strutture Hospice. Parallelamente al lavoro clinico riteniamo fondamentale il lavoro svolto per promuovere l’aggiornamento e la formazione dedicata al personale dei reparti in supporto alle difficili scelte cliniche ed etiche, oltre ad una stretta collaborazione nel decision-making sul singolo malato.

Naturalmente, l’aspetto relazionale ha subìto il maggiore stravolgimento rispetto ai canoni delle cure palliative, per l’isolamento imposto dalle misure di contenimento del virus e per la brevità della durata media dei ricoveri che ha reso la comunicazione coi malati e coi familiari una costante criticità. Nonostante le difficoltà si è subito provato a cercare delle soluzioni per i pazienti e i familiari da una parte, e per gli operatori dall’altra, con un lavoro congiunto dell’équipe medico-infermieristica e psicologica. I familiari sono stati contattati quotidianamente dal medico di reparto dedicando un tempo congruo a questa attività, anche grazie al potenziamento della presenza medica quotidiana. È stato possibile reperire dei tablet per mettere in contatto malati e familiari, grazie ad una richiesta di aiuto che ha visto rispondere privati, aziende e istituzioni con rapidità senza precedenti. L’équipe di psicologhe ha costantemente supportato i malati e i familiari con continui contatti telefonici, e ha mantenuto stretti contatti individuali con il personale non potendo al momento organizzare le ordinarie attività di gruppo. Certamente il monitoraggio della salute psichica degli operatori va incluso nelle priorità attuali e future delle équipe che si sono occupate di questa emergenza sanitaria.

L’aspetto comunicativo e relazionale ha richiesto una riformulazione ma è rimasto centrale nell’approccio al paziente e alla famiglia e, forse, ha distinto l’approccio delle cure palliative da ogni altro approccio ospedaliero indicando una via percorribile anche se impervia.

La sfida, in conclusione, è stata quella di portare il mondo delle cure palliative in un universo per noi inesplorato, consapevoli della necessità di continui aggiustamenti e miglioramenti secondo quello che la realtà quotidiana ci metteva di fronte, ma senza la paura di uscire dalla nostra zona di comfort. In questo momento storico, come ogni realtà dentro e fuori la sanità, il mondo delle cure palliative si è dovuto attrezzare per fronteggiare questa grande emergenza senza perdere di vista la propria mission, lavorando per poterci riportare il prima possibile al di fuori dell’emergenza verso una normalità che sarà del tutto nuova, ma speriamo caratterizzata da maggiore e rinnovata consapevolezza di quanto il nostro lavoro “di routine” fosse e sarà fondamentale per i malati bisognosi di cure palliative.

Ringraziamenti. Un doveroso ringraziamento a tutti gli operatori dell’Unità di Cure Palliative e Terapia del Dolore dell’ASST Nord Milano: Antonino Russo, Michela Dessì, Milena Fragosch, Marta Zani, Francesca Galante, Donata Putriute, Isabella Marchetti, Silvia Ferrario, Roberto Violi, Enza Narciso, Maurizio Romano, Stefano De Nuzzo, Alessandro Ceparano, Caterina Atzori, Rossella Di Michele, Emanuela Baratti, Martina Spitale, Salvatore D’Auria, Jara Mendez, Maurizio Russo, Maria Teresa Mele, Eva Amparo Tito Leon, Laura Cannistrà, Tatiana Barresi, Sabrina Minuti, Matiateresa Basalini, Alessandro Doria, Ilaria Catalano, Marisa Cominetti, Mariella La Licata, Milka Liubicic, Michela Malgioglio.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

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