Le incognite dell’ultimo miglio.
La morte di Andrea Camilleri

ROBERTO GAROFALO

ASP Palermo - UO Cure Palliative, Palermo

Pervenuto il 3 settembre 2019.

Riassunto. La morte di Andrea Camilleri ci ha trovati affranti come quando è un nostro affetto prossimo a lasciarci. Ma, da “addetti ai lavori” avvertiamo anche la necessità di porre attenzione all’ultimo tratto di strada che si è ritrovato a percorrere, in un reparto di rianimazione. La frontiera degli stati di fine vita spesso non è facilmente riconoscibile; va cambiata strategia di cura, realizzando la sospensione assistita, graduale, più o meno rapida delle terapie di sostegno delle funzioni vitali, per dare spazio a cure palliative. Tale operazione a volte sa di resa, a volte di paura. Esistono documenti il cui intento è di stabilire i termini clinici che possano fare da spartiacque tra le scelte in senso “intensivistico” e quelle di tipo “palliativistico”, ma, ad oggi, ne registriamo la scarsa diffusione e conoscenza. La corretta somministrazione dei protocolli terapeutici intensivi o la desistenza dal farlo trova indicazioni basate sull’evidenza clinica; eventuali dilemmi di coscienza possono, quindi, chiamarsi fuori. Ben diverso è il caso in cui si dovesse avere a che fare con le volontà liberamente espresse dal paziente: qui il dibattito etico rimane aperto, poiché si può avere a che fare con volontà difformi da quelle previste dai protocolli.

Parole chiave. Cure intensive, cure palliative, stadio terminale, malpractice.

The incognite of the last stretch of road. The death of Andrea Camilleri

Summary. The death of Andrea Camilleri has found us as heartbroken as when it is our affection to leave us. But, as “workers” we also feel the need to pay attention to the last stretch of road that he found himself walking, in a resuscitation department. The frontier of end-of-life states is often not easily recognizable; care strategy needs to be changed, realising the assisted, gradual, more or less rapid suspension of therapies to support vital functions, to give space to palliative care. This operation sometimes seems to be a surrender, sometimes it scares. There are documents whose intent is to establish the clinical terms that can act as a watershed between choices in the “intensive” and “palliative” care, but, to date, we record the lack of diffusion and knowledge. The proper administration of intensive therapeutic protocols or the existence of this is evidence-based; any lesm of consciousness can, therefore, be called out. It is quite different in case we have to deal with the wishes freely expressed by the patient: here the ethical debate remains open, because one can deal with the will of different from those provided for by the protocols.

Key words. Intensive care, palliative care, end-stage, malpractice.

La morte di Andrea Camilleri non ci ha certamente colto di sorpresa. Gli anni, tanti, dipinti sul volto e riconoscibili nell’espressione e nei movimenti dell’amatissimo “padre del commissario Montalbano”, già da qualche tempo lasciavano presagire una sua fine non lontana. Eppure ci siamo ritrovati ugualmente affranti, come se per un moto affettivo unanime e irrazionale questa fine non dovesse mai accadere. Per molti di noi è stato come perdere un parente, perché con lui se ne va un pezzettino della vita di ognuno di noi, esattamente come quando è un nostro affetto prossimo a lasciarci. Dal momento del triste annuncio della sua morte è stato un susseguirsi intenso e abbondante di memorie e di rievocazioni, uniformemente improntato al bello di ciò che lascia, per intelligenza, per arte e per quell’inesprimibile mescolanza d’ironia e sagacia che ha saputo regalare a chi l’ha seguito e amato.

È difficile resistere al desiderio spontaneo di unirci al coro dei ricordi, sentiamo anche noi l’esigenza di rimarcare nel cuore e nella memoria il frutto ammirevole della sua arte. Ma avvertiamo anche la necessità di porre un’attenzione speciale al suo ultimo miglio, all’ultimo tratto di strada che il nostro si è ritrovato a percorrere da protagonista, avendone, con tutta probabilità, una consapevolezza certamente ridottissima, se non nulla.

L’ultimo viaggio di Andrea Camilleri, dopo l’allagamento della sua mente in un’emorragia devastante, com’è intuibile, si è consumato in un reparto di rianimazione. Nei giorni immediatamente seguenti al grave malanno che lo colpì, secondo le buone regole dell’informazione, nelle ore serali veniva emanato il bollettino medico che aggiornava sulle sue condizioni. In trepida attesa, tra i timori dei più, si ascoltava la voce del dichiarante che annunciava la “sostanziale stabilizzazione del quadro, sia pure nei termini dell’estrema gravità”. In seguito i bollettini, del medesimo tenore, furono emessi ad una distanza sempre maggiore l’uno dall’altro, fino alla loro totale scomparsa. Nei notiziari, le informazioni a suo riguardo, relegate in spazi editoriali sempre più ristretti, divennero sporadiche; la gente teneva per sé la tacita consapevolezza di un caro paziente in una statica, dunque confortante, condizione clinica, permettendosi, in cuor proprio, di sperare persino in una improvvisa, miracolosa, impossibile ripresa.

Per gli “addetti ai lavori” non era così. Per chi è avvezzo a praticare gli ambienti-frontiera della fine della vita – e le Unità di Terapia Intensiva lo sono a buon diritto – si avvertiva il desiderio di conoscere i passaggi che stavano segnando il percorso clinico del paziente, tanto più quanto più forte era il silenzio a suo riguardo.

Sappiamo bene che, tra i progressi più evidenti della medicina moderna, quelli che si possono osservare nei reparti di rianimazione sono tra i più clamorosi. Oggi, la possibilità concreta di riguadagnare alla vita condizioni critiche, di ri-animare in senso letterale, di salvare vite altrimenti destinate a perdersi, sono successi reali. Nel silenzio degli ambienti di degenza, alla sola luce delle lampade al neon e dei monitor posti accanto ai pazienti ricoverati, si salvano vite umane. Se si pensa che, fino a non molti anni fa, molti di questi salvataggi sarebbero stati impossibili, non ci si può che compiacere dei progressi ottenuti e ringraziare chi giornalmente, non senza ostacoli a volte quasi insormontabili, li mette in opera, a tutela della vita.

Ma la frontiera avvincente degli stati di fine vita non è affatto nitida, né sempre facilmente riconoscibile. La clinica delle fasi ultime di certi quadri patologici risente di un andamento evolutivo spesso inesorabile; la fine, dapprima allontanata e combattuta, può presentarsi in termini sempre più evidenti; le cure intensive possono gradualmente perdere significato e, a quel punto, l’unica decisione possibile riguarda l’attuazione di manovre terapeutiche rivolte unicamente a eliminare eventuali fonti di sofferenza. Va, cioè, cambiata strategia; si può realisticamente immaginare che non sia una scelta facile. La sospensione assistita, graduale, più o meno rapida delle terapie di sostegno delle funzioni vitali, per dare spazio a cure palliative, a volte sa di resa, a volte di paura. Spesso prevale un atteggiamento di generica difesa da possibili ricadute di tipo medico-legale, nel timore – oggi più che mai fondato – che la prevedibile morte del paziente in Rianimazione possa generare recriminazioni e denunce, da parte di familiari ostili o di altri soggetti, a vario titolo coinvolti e variamente motivati. Del resto, è abbastanza noto che la “medicina difensiva”, emergenza che caratterizza drammaticamente il nostro tempo, negli ambienti di emergenza/urgenza e nei reparti di rianimazione trova, oggi, spazi tristemente privilegiati.

Ma, al di là di qualunque fattore esterno di condizionamento, a volte le remore nell’attuazione di questa inversione di marcia riguardano più intimamente il singolo operatore, il quale nell’assunzione di scelte pesanti, fatto salvo il proprio personale bagaglio di conoscenze scientifiche, avverte, a torto o a ragione, di essere coinvolto nella propria coscienza. Parlando di vita e di morte ci si sente interpellati profondamente, si avverte la tentazione di uscire dallo stretto alveo delle applicazioni tecniche e ci si sente interrogati dal profondo, spesso con inquietudine, a volte, si diceva, con paura. Allora ci si appiglia a protocolli collaudati, ove possibile; si cercano riferimenti in documenti accreditati per evitare di incorrere in errori. Si chiede aiuto, se si crede di poterne trovare, o si evita di farlo per non farsi trovare scoperti. Si vive un disagio.

Intorno alla fine del 2013 è stato redatto, ad opera del SIAARTIa, un prezioso documento il cui intento è stato quello di stabilire i termini clinici che possano fare da spartiacque tra le scelte in senso “intensivistico” e quelle di tipo “palliativistico”, per i quadri patologici che più frequentemente possono esporre a tale difficile scelta. Esso si somma ad altri studi di simile contenuto rintracciabili nella letteratura internazionale; l’aumento numerico progressivo di tali contributi è espressione dell’attualità emergente del problema. In futuro è auspicabile che un’attenzione sempre più puntuale a questi dilemmi possa generare ancora altri studi, che si possano attagliare sempre meglio alle più varie condizioni di criticità riscontrabili al capezzale di malati “critici”. Ma, ad oggi, registriamo la scarsa diffusione e conoscenza di questi documenti. Troppo spesso capita di essere convocati, in qualità di consulenti palliativisti, negli ambienti di terapia intensiva, e di verificare il vuoto di conoscenze a riguardo, rammaricandoci di quanto potrebbero tornare utili, oltre che di grande conforto, la conoscenza e l’applicazione di tali protocolli. Il futuro vedrà comunque la promozione di tali strumenti, per nostra convinzione e per il bene di tutti. Sappiamo già che buona parte dei nostri sforzi, già nel futuro immediato, dovranno rivolgersi in tale direzione.

Un’opportuna precisazione riguarda gli aspetti etici del problema. Siamo fortemente convinti che l’identificazione dei quadri “end-stage” e l’applicazione delle misure terapeutiche adeguate, fino a quando si possano ancorare a criteri clinico-scientifici chiari e inconfutabili, non presentino che poche rilevanze morali: la corretta somministrazione di certi protocolli terapeutici, o la desistenza dal farlo, trova indicazioni basate sull’evidenza clinica; eventuali dilemmi di coscienza possono, quindi, chiamarsi fuori. Viceversa, ogni loro scorretta applicazione, tanto in eccesso quanto in difetto, costituisce una malpractice. La sproporzione delle cure nel perseguimento di uno sterile allungamento dei tempi di mera sopravvivenza biologica può rientrare nel criterio colpevole della “futilità”; d’altro canto, l’altrettanta sproporzione data dalla loro riduzione indosserebbe lo scomodo abito della morte anticipata, fino all’eutanasia, se voluta intenzionalmente. L’unico elemento eticamente sensibile, in questo caso, non può che essere quello di adeguare le proprie conoscenze a quanto scientificamente provato e divulgato. Sarebbe immorale, infatti, ogni disagio operativo dettato dall’ignoranza di quanto già acquisito secondo i criteri dell’evidenza.

Ben diverso è il caso in cui si dovesse avere a che fare con le volontà liberamente espresse dal paziente o, secondo quanto regolamentato dalla recente legge sulle disposizioni anticipate di trattamento, da chi lo rappresenta, riconosciuto legalmente nel ruolo di fiduciario. Si può avere a che fare con volontà difformi da quelle previste dai protocolli; si può avere una visione antitetica del proprio progetto di vita, rispetto a ciò che prevede l’applicazione di presìdi terapeutici spesso invasivi. Qui siamo, indubbiamente, ai quesiti più squisitamente morali; qui le differenti posizioni che riguardano la disponibilità/indisponibilità del bene-vita possono scontrarsi e dibattere su un piano che attiene altre sfere, quelle dell’etica, appunto, assodate le certezze scientifiche. Qui il dibattito rimane aperto.

Non abbiamo alcun dubbio, è bene precisarlo, che al nostro caro Andrea siano state somministrate le giuste cure, in modo puntuale e attento; non abbiamo motivo di sospettare che al capezzale del rinomato paziente non si siano avvicendate le competenze più illustri, per assicurare quanto previsto secondo i canoni dell’appropriatezza. Ci siamo solo preoccupati, questo sì, dal momento che i tempi di sopravvivenza si allungavano e il silenzio sulle sue condizioni andava facendosi assordante. Ma è stata solo paura di un’incognita.

Sta di fatto che Andrea, andandosene in silenzio, forse ha solo voluto lasciarci, involontariamente, qualche domanda in più, sulla scia dei quesiti che usava sottoporci nei suoi gialli; per una volta ancora ha fatto sì che le nostre menti si cimentassero in un enigma dalla difficile soluzione. Ma accanto al suo corpo che andava spegnendosi vogliamo pensare che ci siano state mani che l’hanno ancora una volta accarezzato, nel più umano dei saluti; solo quello e nient’altro, solo quello e nessun’altra futilità. E vorremmo che fosse sempre così, per tutte le condizioni critiche in limine vitae; vorremmo non sbagliare mai, adattando sempre le giuste cure a chi sta per lasciarci. Vorremmo trovare sempre il giusto spazio per la stretta di mano e l’abbraccio alla fine: lì sì che non sarebbe mai troppo, che si potrebbe largheggiare, esagerare. Non esiste accanimento nell’umanità degli affetti.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.