I confini fra etica e medicina (2° parte)

LUCIANO ORSI

Medico palliativista, Vicepresidente SICP.

Pervenuto l’11 luglio 2019.

Riassunto. Questa seconda parte dell’editoriale prende in esame altre importanti questioni presenti al confine fra etica e medicina. La prima è il controverso rapporto fra prestazione tecnica e relazione umana che caratterizza ogni atto di cura in tutti gli ambiti (medicina delle patologie acute, delle patologie croniche e della terminalità) e in tutti i setting di cura, generando attese e speranze di senso opposto o alterno in malati, familiari e sanitari. La seconda questione è l’altrettanto controverso rapporto fra biologia e biografia con il correlato rapporto tra evidence based medicine e narrative based medicine che rappresentano due schemi concettuali che i sanitari e i familiari devono imparare a far convivere nelle loro menti e nelle loro prassi. La terza questione è l’attuazione della Pianificazione Anticipata o Condivisa delle Cure, uno strumento potente per una gestione eticamente, deontologicamente e giuridicamente corretta della cronicità avanzata e della terminalità ma che richiede di risolvere vari problemi attuativi. La quarta questione è l’impostazione moderna della cartella clinica che non può più essere solo un raccoglitore di dati biologici o di prestazioni effettuate e che, pertanto, deve diventare anche un registro delle narrazioni del malato e del processo decisionale condiviso. La quinta questione è incentrata su un uso consapevole del criterio etico di proporzionalità che richiede l’attenta valorizzazione sia dei suoi aspetti oggettivi sia di quelli soggettivi. La sesta questione è l’accettazione dell’incertezza biologica, biografica, etico-deontologica e giuridica che caratterizza la gestione dei malati in fase avanzata e terminale di malattia. Infine, la settima questione è il crescente conflitto tra una beneficialità autodeterminata e il principio etico di giustizia che tutela il bene di altri e, quindi, della comunità. L’importanza crescente del fondamentale principio di autonomia deve trovare un equilibrio con il principio di giustizia affinché le cure rimangano in un ambito eticamente difendibile.

Parole chiave. Relazione malato-sanitari, biografia, pianificazione anticipata delle cure, incertezza, giustizia, bioetica.

The boundaries between ethics and medicine – 2th part

Summary. This second part of the editorial examines other important issues on the border between ethics and medicine. The first is the controversial relationship between technical performance and human relationship that characterizes every act of care in all areas (medicine of acute pathologies, chronic diseases and terminality) and in all care settings, generating expectations and hopes of the opposite sense or alternate in patients, family and health care professionals. The second issue is the equally controversial relationship between biology and biography with the correlated relationship between evidence based medicine and narrative based medicine that represent two conceptual schemes that health care professionals and family members must learn to coexist in their minds and their practices. The third issue is the implementation of the Advance or Shared Care Planning, a powerful tool for an ethically, deontologically and legally correct management of advanced chronicity and terminality but which requires solving various implementation problems. The fourth issue is the modern setting of the medical record that can no longer be just a collector of biological data or performed services and that, therefore, must also become a register of the patient’s narratives and shared decision-making process. The fifth question is centered on a conscious use of the ethical criterion of proportionality that requires careful evaluation of both its objective and subjective aspects. The sixth question is the acceptance of the biological, biographical, ethical-deontological and juridical uncertainty that characterize the management of patients in advanced and terminal illness. Finally, the seventh question is the growing conflict between a self-determined beneficence and the ethical principle of justice that protects the good of others and, therefore, of the community. The growing importance of the fundamental principle of autonomy must find a balance with the principle of justice so that care remains in an ethically defensible environment.

Key words. Professional-patient relationship, biography, advance care planning, uncertainty, justice, ethics.

Introduzione

In questa seconda parte proseguirà l’esplorazione dei confini tra etica e medicina alla ricerca di questioni nodali su cui riflettere, oltre che da un punto di vista più squisitamente teorico, anche e soprattutto nella pratica clinica quotidiana. Quelle che verranno prese in esame sono, infatti, dure pietre decisionali che non possono non essere spostate mentre si cammina lungo i percorsi decisionali della cura ma che, riprendendo la metafora dei geoglifi di Nazca (figura 1), possono cambiare il disegno attuativo della medicina a seconda del verso e della direzione in cui vengono spostate.




 

Il controverso rapporto fra prestazione tecnica e relazione umana in medicina

La medicina ha da sempre percorso il crinale che corre fra prestazione tecnica da un lato e relazione umana dall’altro, cercando i possibili equilibri fra i due versanti a seconda della potenza tecnologica e dei contesti socioculturali che si sono dipanati nel corso dei millenni. In merito all’equilibrio fra prestazione tecnica e relazione di cura si registra un’ampia variabilità di vissuti, aspettative, bisogni consapevoli e inconsapevoli che albergano in malati, familiari e sanitari con oscillazioni molto ampie in funzione del contesto operativo. Ad esempio nel contesto della medicina per acuzie, generalmente prevale la prestazione tecnica sulla relazione sia nelle prassi che nelle attese del malato e dei familiari oltre che nei vissuti dei sanitari, anche se questo può generare non rare lamentele per una mancanza di informazione, comunicazione, relazione se non empatica almeno attenta ai vissuti emotivi di malati e familiari. Ma non è affatto infrequente anche un’insoddisfazione latente anche nei sanitari che lamentano un bisogno di relazione interpersonale che la pur eccellente qualità della prestazione tecnica non può colmare. Nella medicina della cronicità la relazione è meno sbilanciata sugli aspetti tecnici, sia per il progressivo venir meno di possibilità tecnologiche di cura sia per la maggior frequenza e/o intensità di contatti fra malato/familiari e sanitari. Nella medicina della terminalità è, invece, più probabile, anche se purtroppo non garantito, che gli aspetti di relazione prevalgano su quelli tecnici. Peraltro, anche il modello di medicina praticato influisce sul rapporto fra prestazione tecnica e relazione poiché il paternalismo più autoritario è focalizzato sulla prestazione sacrificando l’aspetto relazionale, mentre, viceversa, il modello delle scelte condivise è focalizzato soprattutto sulla relazione. Il paternalismo soft può apparire più aperto alla relazione ma, operando una più o meno celata manipolazione, rischia di creare gravi tensioni e insoddisfazioni relazionali. Analogamente, il ruolo professionale e il cammino formativo che produce il modello di medicina praticato, gioca un ruolo non indifferente nello spostare l’equilibrio verso uno dei due versanti, anche se non vi sono schemi rigidi e comportamenti prevedibili solo in base a questi due elementi, poiché la stessa tipologia professionale sanitario (es. infermiere, medico, OSS, ecc.) e il relativo percorso formativo possono risultare anche molto sbilanciati verso uno dei due versanti a seconda delle inclinazioni personali, del setting operativo, della qualità della formazione continua, ecc.

Un altro fattore che può incidere sul tema tecnica-relazione è la concezione personale di medicina che il sanitario custodisce al suo interno: se questa fa riferimento a una concezione di prestazione professionale ad impronta e responsabilità prevalentemente individuale l’aspetto relazione sarà tenuto in maggiore considerazione. Mentre se la concezione interna è condizionata da un prevalente aziendalismo sanitario con regole organizzative molto orientate alla produzione e al conteggio delle prestazioni, allora l’aspetto relazionale sarà sacrificato dalla ridotta disponibilità di tempi e dall’inospitalità dei luoghi (ospedalieri o territoriali) di produzione.

L’inospitalità nei confronti della costruzione e mantenimento delle relazioni dei luoghi di cura è addirittura impressa nelle architetture di molti di questi luoghi; ad es. l’ospedale, essendo prevalentemente concepito per trattare patologie acute o riacutizzazioni delle patologie croniche, è un assemblaggio razionale di locali tecnici (sale operatorie, sale per l’emergenza/urgenza, sale per prestazioni tecnologiche di vario tipo, studi professionali, infermerie, ambulatori, ecc.) in cui si evidenzia una grave carenza di locali protetti in cui condurre incontri e colloqui o locali di convivenza per familiari e malati, ecc.. Le rigide regole organizzative (orari di visita e di colloqui, ecc.) sono un’ulteriore dimostrazione della scarsa attenzione agli aspetti relazionali. Analoghe considerazioni possono essere fatte sulle architetture e regole organizzative dei setting di cura territoriali (ambulatori, cure domiciliari, ecc.).

In merito al rapporto fra prestazione tecnica e relazione di cura non è superfluo ricordare che l’art. 1 della legge 219/17 valorizza nel comma 2 la relazione di cura elevandola addirittura a “relazione di cura e di fiducia” e nel comma 8 il tempo della comunicazione è definito come “tempo di cura”1, peraltro in piena sintonia con l’art. 20 del codice di deontologia medica2 e con l’art. 4 del Codice Deontologico dell’infermiere3.

Biologia e biografia

Questo tratto di confine è uno di quelli apparentemente più noti, soprattutto nell’ambito delle cure palliative, sia perché la visione olistica dei bisogni (dolore totale) presuppone l’ascolto e la valutazione dei vissuti del malato sia perché la ricerca qualitativa è da sempre valorizzata quanto quella quantitativa.

Parimenti, la narrative based medicine (NBM) sembra aver acquisito una pari dignità rispetto alla più nota evidence based medicine (EBM) poiché viene spesso invocata nei processi di umanizzazione della medicina e, in particolare nell’ambito palliativo, trova un’ampia accoglienza4-7.

Se si esaminano con una prospettiva generale i percorsi formativi dei professionisti sanitari si deve però constatare quanto poco le medical humanities e la NBM vengano utilizzati come strumenti formativi sia nel percorso formativo pre-laurea che in quello post-laurea. Questo comporta l’ingresso nel mondo del lavoro di professionisti fortemente orientati a ricercare la durezza dell’EBM che permette di controllare più facilmente l’ansia dell’incertezza sul da farsi e di rifuggire dal disagio del dubbio. Incertezza e dubbio che, invece, il dato soft della NBM può indurre per il suo contenuto di vissuti, percezioni, valori, concezioni esistenziali, preferenze personali, ecc. Questo mancato allenamento a incontrare ed ascoltare la narrazione del malato (e quella, quasi mai sovrapponibile, dei suoi cari) finisce per rendere più difficile l’acquisizione di una visione olistica dei loro bisogni. Un esempio quotidiano è l’ambiguità con cui viene spesso gestita la valutazione del dolore (o della dispnea) tramite scale o score o descrittori verbali a cui non raramente si assegna una credibilità maggiore se concorda con la valutazione dell’osservatore e, viceversa, una credibilità minore se non concorda. Analogamente la sofferenza psicologica o psico-esistenziale è ancora sottovalutata in medicina perché apparentemente meno oggettivabile o misurabile rispetto a quella fisica e questo è ogni giorno testimoniato dalle prassi in atto in ogni setting di cura, ospedaliero o territoriale e dalla pressoché regolare assenza di psicologi nelle équipe curanti nella medicina dell’acuzie o della cronicità. Ma anche nelle cure palliative questa diffidenza verso la sofferenza psico-esistenziale non è del tutto sopita viste le (residuali?) resistenze a considerarla un sintomo che può diventare refrattario e giustificare una sedazione palliativa al pari dei sintomi fisici8-10.

In proposito, non è inutile sottolineare che una reale valutazione di questo tipo di sofferenza non può che scaturire da un incontro profondo e ripetuto con il malato che ne è portatore. Ma per poter sedersi sulla “sedia che scotta” ed ascoltare la sofferenza psico-esistenziale bisogna essere intimamente e profondamente convinti della NBM e del suo valore di integrazione con la EBM. Altrimenti si rimarrà ingenui adoratori della EBM che fuggono non appena la sedia (o anche solo le suole delle scarpe o degli zoccoli sanitari) cominciano a scottare per l’avvio di una narrazione di un vissuto del malato o del familiare/caregiver.

La diffidenza di tanta parte della medicina verso la NBM ha inoltre altre conseguenze negative individuabili nella sottovalutazione del valore che le medical humanities e la NBM hanno nel supportare i malati ad esprimere i loro bisogni e le loro preferenze. Infatti, se i professionisti sanitari sono diffidenti verso le medical humanities o verso le narrazioni, non le proporranno ai loro malati per invogliarli a raccontarsi né, tantomeno, educheranno i familiari ad accogliere tali narrazioni. Il prevedibile risultato è quello sotto gli occhi di tutti: malati sempre più soli nell’impossibilità di essere ascoltati nelle loro paure ed aspirazioni perché circondati da sanitari e familiari “afasici sul piano relazionale” per un’attenzione polarizzata sugli aspetti tecnici della cura.

La pianificazione condivisa delle cure

L’art. 5 della Legge 219/17 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) è espressamente dedicato alla pianificazione condivisa delle cure (PCC) e recita al comma 1: “Nella relazione tra paziente e medico di cui all’articolo 1, comma 2, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l’équipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”1. La PCC è probabilmente l’articolo meno noto della suddetta legge anche se rappresenta la chiave di volta per la cura della cronicità in fase evolutiva poiché permette di esercitare una reale medicina delle scelte condivise11 tramite una tempestiva informazione del malato e un supporto allo sviluppo di una consapevolezza che gli permetta di compiere scelte anticipate fondate sulle sue concezioni valoriali, sulle sue preferenze e nel rispetto della sua visione della vita e della morte12. È evidente quanto la PCC sia connessa alla già menzionata valorizzazione dei vissuti del malato; infatti, solo con l’ascolto delle narrazioni del malato sarà possibile condividere con lui un percorso decisionale anticipato. Ma se la PCC è indubbiamente il più potente strumento che abbiamo a disposizione nella cronicità in fase avanzata e terminale di malattia, è altrettanto incontestabile che molte questioni empiriche relative ad essa vanno affrontate e risolte senza altri indugi. Ad esempio quando e come avviare la PCC nelle varie tipologie di malattie e di malati? In quali momenti topici è opportuno o doveroso avviarla? Come offrirla al malato? Quanto i sanitari possono essere propositivi senza risultare troppo intrusivi? I sanitari quanto possono o devono attendere l’espressione esplicita di un bisogno di pianificazione da parte del malato? Le indicazioni e gli strumenti che la letteratura, prevalentemente di provenienza nord-americana e nord-europea, sono validi anche in ambito mediterraneo? Queste sono dure pietre che dobbiamo imparare a spostare, ben consapevoli che prima lo facciamo meglio è per la gestione dei bisogni (già esistenti) del malato ma che occorre esercitare una particolare attenzione per la delicatezza dei temi sollevati.

La cartella clinica: solo dati biologici?

Quanto finora detto sulle narrazioni e sulla PCC ci porta direttamente ad analizzare il nuovo ruolo che deve assumere la cartella clinica che non può più limitarsi ad essere quello che è stata finora: un raccoglitore di dati biologici e un diario delle prestazioni tecniche effettuate (tanto da essere diventata, tramite la SDO – Scheda di Dimissione Ospedaliera – una sorta di “fattura” emessa verso il Sistema Sanitario Regionale). Se deve contenere un reale tracciato del processo informativo che conduce al consenso anticipato nella PCC (legge 219 comma 4 art. 5: “omissis… La pianificazione delle cure può essere aggiornata al progressivo evolversi della malattia, su richiesta del paziente o su suggerimento del medico”1), la cartella clinica deve modificarsi profondamente aprendosi alla registrazione dei colloqui che avvengono fra i sanitari ed il malato, delle sue narrazioni e delle sue preferenze. Sintetizzando, la cartella deve diventare un luogo in cui deve trovare un posto privilegiato il racconto dello svolgersi del processo decisionale, anche se questo può evolvere in modo non lineare e con oscillazioni, incertezze, ambiguità tipiche di ogni autentica relazione umana prima che professionale.

Il criterio di proporzionalità

Questo fondamentale criterio etico permette di classificare un trattamento come proporzionato o sproporzionato, sancendo l’obbligo morale di attuarlo (iniziarlo o proseguirlo) se proporzionato e, viceversa, di non iniziarlo o proseguirlo se sproporzionato. Questo criterio, presente in molte visioni bioetiche come criterio “oneri/benefici” (burden/benefits)13-16, è esplicitamente citato anche nei codici deontologici (art. 16 Codice di deontologia medica; art. 25 del codice deontologico dell’infermiere)3, oltre che nell’art 2, comma 2 della legge 219/17 (“Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. omissis…)1. I quattro fattori che determinano la proporzionalità sono: le buone probabilità di successo del trattamento ipotizzato, l’attesa di incremento della quantità e qualità della vita indotte dal trattamento e il basso peso degli oneri (globalmente intesi come oneri fisici, psichici ed economici) correlati ad esso. Viceversa, un trattamento che non prospetta rilevanti probabilità di successo o significativi incrementi della quantità o qualità della vita e che è gravato da alti oneri, risulta sproporzionato. Quando si prende in mano la dura pietra della proporzionalità di un trattamento è bene essere pienamente consapevoli che questi quattro fattori hanno quasi sempre una duplice natura: ossia, sono sia oggettivi che soggettivi. Infatti, la probabilità di successo e l’attesa di incremento della quantità di vita (sopravvivenza) ha sia una natura oggettiva ricavabile da studi comparativi condotti su popolazioni di malati trattati e non trattati, sia una valenza soggettiva perché il valore del successo del trattamento o dell’incremento della sopravvivenza sono assegnati dal malato stesso in base alle sue concezioni valoriali e biografiche. Anche la qualità della vita, pur avendo una componente oggettivabile sotto forma di dipendenza funzionale e di altri parametri, ha una natura soggettiva assolutamente prevalente. Infine, gli oneri, soprattutto economici, possono esseri oggettivati con calcoli o stime, ma hanno una valenza soggettiva di gran lunga prevalente (il peso degli oneri psico-fisici che il malato dovrà sopportare in prima persona). L’uso corretto del criterio di proporzionalità richiede quindi un’attenta razionalità per la gestione di entrambi gli aspetti oggettivi-soggettivi e una aperta condivisione con il malato.

Accettare e gestire l’incertezza

Una delle caratteristiche dei confini è l’incertezza del loro reale tracciato perché mentre sulle mappe sono tracciati con linee nette, sul territorio concreto esiste una prevalente indeterminatezza, quando non porzioni di terreno definite “terre di nessuno”. Infatti, è sempre saggio ricordarsi che le mappe, anche quelle mentali, sono una rappresentazione molto semplificata del territorio e, pertanto non potranno mai contenere la grande complessità del territorio reale. Fuor di metafora, nel fine vita l’incertezza è rappresentata dall’incertezza biologica, da quella biografica e da quella etico-deontologico-giuridica. La prima, l’incertezza biologica, è più facilmente intuibile per i sanitari poiché l’incertezza dell’andamento delle patologie, delle risposte individuali ai trattamenti, delle complicanze della malattia e/o dei trattamenti, delle stime prognostiche, ecc. sono ben note perché intrinseche all’esercizio della medicina stessa. Questa incertezza biologica risulta però meno facilmente comprensibile e accettata dai malati e dai loro cari per vari motivi fra cui spiccano la disinformazione, anche mass-mediatica, che circonda la medicina e l’ingenua tendenza (anche inconscia) ad assegnarle pretese di infallibilità e onnipotenza.

L’incertezza biografica è, per converso, più nota nel mondo del malato e del familiare/caregiver perché i vissuti che si svolgono in un percorso di malattia sono immediatamente accessibili al loro sguardo nelle non infrequenti oscillazioni dei vissuti, nelle possibili variazioni di preferenza o priorità delle scelte e negli stati emotivi correlati. Il fatto che l’incertezza biografica sia più nota non deve però indurre a pensare che sia anche più facilmente accettata perché spesso i familiari o talvolta anche i malati stessi, si attendono coerenze di orientamento e stabilità emotive o di preferenze che non risultano realistiche. In questo, soprattutto i familiari, sono simili ai sanitari che vivono con frequente disagio l’incertezza biografica, auspicando nel loro intimo, un idealtipo di malato (o anche di familiare) che razionalmente compia scelte stabili e coerenti con una tranquillizzante stabilità emotiva. Infine, l’incertezza etico-deontologico-giuridica è quella che maggiormente inquieta tutti (malati, familiari, sanitari) perché, a causa di deficit di formazione e informazione, fa vacillare conoscenze o credenze che si reputano, solide e stabili nel tempo. Invece, sia l’etica che la deontologia e anche il diritto sono riferimenti a base morale che necessariamente mutano nel tempo risentendo di cambi culturali della società e delle scienze correlate. Se non si acquisiscono aggiornate conoscenze e competenze in merito, si tende ad attribuire all’etica, alla deontologia e al diritto un potere di controllo dell’incertezza che essi non possono costitutivamente avere. Queste considerazioni non significano, ovviamente, che non ci siano solidi riferimenti etico-deontologici o giuridici cui improntare le prassi operative, ma semplicemente implicano che tali indicazioni vanno adeguatamente conosciute e che si devono costantemente ricercare i tempi e i modi della loro implementazione. Acquisire conoscenze e competenze adeguate significa anche confrontarsi con le versioni ufficiali (e non con la diffusa vulgata semplificante quando non banalizzante) delle varie visioni etiche che caratterizzano l’epoca attuale, misurarsi con l’evoluzione storica dei codici deontologici delle varie professioni sanitarie e con gli orientamenti in atto nel diritto, per non cadere in equivoci, ingenue o superate interpretazioni, fallacie logiche, e altri svariati errori concettuali.

Ma ancor più importante è essere consapevoli che occorre scegliere di “dover e voler stare” nell’incertezza biologica, biografica e di indicazioni normative etico-deontologiche e giuridiche, perché non è dato raggiungere quel grado elevato, o addirittura assoluto, di certezza che vorremmo tutti (malati, familiari, sanitari, eticisti, giuristi, ecc.) avere. Nella cronicità avanzata e nella terminalità queste aree grigie di incertezza sono ineliminabili, nonostante i migliori e doverosi sforzi di ridurle; bisogna perciò decidere nel nostro profondo di abitare queste aree crepuscolari dove il confine del giusto e del bene è più sfumato e difficile da individuare, con certezza e da parte di tutti.

In tal senso risuonano profetiche le parole di Zygmunt Baumann: “le scelte sono scelte e questo significa che ciascuna è in una certa misura arbitraria e che l’incertezza sulla sua validità può permanere a lungo dopo che la si è presa. L’incertezza non è un problema temporaneo che si possa superare imparando le regole, accettando i consigli degli esperti o semplicemente facendo quello che fanno gli altri. Al contrario, è una condizione permanente della vita, il terreno stesso in cui il soggetto morale mette le radici e cresce. La vita morale è caratterizzata da una continua incertezza”17.

Il conflitto fra l’autonomia/beneficialità e la giustizia

Uno dei conflitti che possono insorgere all’interno dell’etica principialista15 nasce dalla contrapposizione fra il principio di beneficialità subordinato al principio di autonomia (il perseguimento del bene scelto dal soggetto) e quello di giustizia (che impone di assicurare un accesso alle cure e l’equa allocazione delle risorse, limitate per definizione)11. Questo conflitto non è confinato a sporadici o classici casi come ad es. la richiesta di terapie futili o sproporzionate (es. chemioterapie ad alto costo e futili nei tumori localmente avanzati o plurimetastatici) o di accesso a risorse molto rare (es. inserimento forzato nella lista di attesa per un trapianto d’organo al di fuori delle corrette indicazioni cliniche) ma si va estendendo sempre più in tutti i livelli di cura, anche quelli di minor complessità. Esempi di questi micro-conflitti sono le richieste da parte di malati o più spesso caregiver/familiari di confinare le visite domiciliari in fasce orarie sempre più rigide e ristrette; richieste di visite, soprattutto domiciliari, con frequenza e intensità eccessive rispetto ai bisogni; richieste di colloqui in hospice o domicilio di lunghezza inusualmente prolungata con effetto “sequestrante” per il sanitario; resistenza o rifiuto di collaborazioni da parte di caregiver/familiari nell’esecuzione di medicazioni complesse, di cure igieniche o di altre procedure assistenziali con richiesta di delega esecutiva totale al personale sanitario; pressioni per accedere all’hospice prevaricando la lista di attesa e la valutazione comparativa con i bisogni di altri malati/famiglie.

Queste richieste impediscono ai sanitari di allocare equamente le risorse (tempo, attenzione mentale, disponibilità di ricovero o presa in carico, ecc.) perché implicano, nella finitezza delle risorse reali, un dedicare in modo non appropriato risorse ad alcuni malati/familiari a discapito di altri, magari meno abili a fare richieste pressanti o, addirittura, ingiuntive. Pur comprendendo i faticosi vissuti di sofferenza del malato e dei suoi familiari/caregiver, deve indurre una riflessione il fatto che, non infrequentemente, questi ultimi risultino insensibili ai bisogni di altri malati e, quindi, al principio di giustizia. Sembra di percepire, infatti, un crescente disinteresse verso il bisogno/bene di altri malati/familiari/caregiver nel momento in cui questo bisogno/bene entra in competizione con il proprio bisogno/bene. L’dea di cercare un equilibrio possibile fra il bene del singolo e il bene comunitario appare spesso estranea ad una visione tutta ripiegata sulla propria condizione e sul proprio vissuto.

Questo indebolimento dei legami di solidarietà comunitaria è preoccupante sia in una medicina sempre più obbligata ad occuparsi di cronicità e di fragilità, sia, soprattutto, nelle cure palliative ove la complessità e l’intensità dei bisogni richiedono da sempre una collaborazione molto stretta con il malato e i familiari/caregiver che presuppone un clima di fiducia reciproca e di visione realistica degli obiettivi raggiungibili nel rispetto di indicazioni deontologico-morali che non possono escludere, di principio, il bene di altri o della comunità.

Ancora una volta ci possono soccorrere le parole di Zygmunt Baumann: “d’altra parte, una società che impegna i suoi membri, come ha fatto la polis, nel compito imperativo di prendersi cura degli affari comuni in modo tale che la vita della collettività possa osservare certi standard di giustizia e prudenza non richiede né soggetti disciplinati né consumatori di servizi sociali, ma piuttosto tenaci e talvolta ostinati, ma sempre responsabili, cittadini”17.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

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