Spiritualità e cure palliative

A CURA DI LAURA CAMPANELLO, MARIO CAGNA, GUIDO MICCINESI

Pervenuto l’11 aprile 2023. Accettato il 18 aprile 2023.

Riassunto. Definire la dimensione spirituale non è facile, specie in un ambito come quello sanitario che parla di ciò che è tangibile e misurabile. Nel 2010, in Olanda, nell’ambito di una task force della European Association for Palliative Care (EAPC) è stata proposta una definizione di spiritualità presa come riferimento dal core curriculum sull’assistenza spirituale pubblicato nel 2019 dalla Società Italiana di Cure Palliative (SICP). Si tratta di una definizione lasciata volutamente aperta, una “working definition”, da arricchire e ampliare alla luce delle esperienze cliniche che sarebbero seguite. L’operatore di cure palliative spesso è in difficoltà perché avverte mancanza di conoscenze sulla spiritualità e incertezza sul ruolo quale operatore sanitario nella cura spirituale. Ci si muove tra un’esigenza profonda del paziente e una mancanza di cultura, strumenti, formazione personale. Si avverte che “manca qualcosa”, peraltro necessario per la maggior parte dei pazienti. Molte proposte formative sono ad oggi disponibili, e ad alcune di queste si fa esplicito riferimento nell’editoriale. L’obiettivo come curanti è sempre imparare ad accogliere la persona nella sua interezza e nella sua complessità passando da una profonda accettazione, o ascolto sincero e profondo, di se stessi. L’assistenza religiosa, al suo meglio, dovrebbe sempre essere spirituale ma non il viceversa. Il suo riferimento principale è la sorgente dei valori personali dei soggetti coinvolti, e per questo necessita di un approfondimento del livello esistenziale in colui che cura e di uno spazio congruo, fisico, mentale e relazionale, in chi soffre e cerca di interrogare la propria guida interiore.

Parole chiave. Assistenza spirituale, formazione spirituale, valori personali, spiritualità, équipe, formazione, cure spirituali, distress spirituale.

Spirituality and palliative care.

Summary. It can be challenging to define the spiritual dimension, particularly in a profession like healthcare focused on what is tangible and quantifiable. The core curriculum on spiritual care that the Italian Society of Palliative Care (SICP) issued in 2019 used the definition of spirituality that was presented, in 2010, in the Netherlands as part of a task force of the European Association for Palliative Care (EAPC). It’s a definition that has been purposefully kept not concluded, a “working definition,” so that it might be improved upon and expanded in light of the clinical experiences that would come later. Because of their perceived lack of expertise about spirituality and anxiety about their position as spiritual care providers, palliative care professionals frequently have difficulties. A patient’s great need is on one side, while a lack of culture, resources, and personal training is on the other. The healthcare provider has the impression that “something is missing,” despite the fact that it is required for the majority of patients. There are numerous training proposals available today, and the editorial specifically mentions a few of them. In order to learn to embrace the individual in all of his or her complexity, caregivers should constantly work to cultivate a deep acceptance of themselves and a real and meaningful listening to others. Religious care, at its best, should always be spiritual, but not the other way around. The source of each person’s personal values serves as its main point of reference, and, in order to do this, it necessitates both a deeper existential level from the person who cares and a corresponding space – physical, mental, and relational – from the person who is suffering and attempting to question his inner guiding.

Key words. Spiritual care, spiritual formation, personal values spirituality, équipe, team, formation, spiritual distress.

Un po’ di storia (a partire dalla mia esperienza)

LAURA CAMPANELLO

Filosofa (Analista Biografica ad orientamento Filosofico) e assistente spirituale laica, Olgiate Molgora (LC) e Milano

Definire la dimensione spirituale non è facile: dire a parole una tensione ineffabile, ampia, che appena la nomini già eccede e sfugge ai limiti descrittivi che le si impongono è un lavoro complicato, specie in un ambito come quello sanitario che si muove tra logiche scientifiche, parla di ciò che è tangibile e misurabile quantitativamente. Se poi questa definizione deve comprendere sia la dimensione laica che quella religiosa, senza esclusione alcuna, è ancora più complicato, specie se non si vuole rinunciare all’ampiezza che la complessità di cui ci si occupa impone. Proprio questo è stato ciò su cui abbiamo lavorato dal 15 al 17 ottobre del 2010 in Olanda. Eravamo 13 delegati di diverse nazioni, per l’Italia era presente, insieme a me, don Arnaldo Pangrazzi, e proporre una definizione di spiritualità è stato il primo atto fondativo della task force sulla cura spirituale nelle cure palliative (SCPC) all’interno della European Association for Palliative Care EAPC (https://www.eapcnet.eu/eapc-groups/reference/spiritual-care/). La situazione di molti Paesi europei era ai miei occhi molto più plastica e aperta rispetto all’Italia, dove ancora l’assistenza spirituale era appannaggio di figure consacrate e la spiritualità era sovrapposta perlopiù alla religiosità.

I presenti alla riunione erano pastori della Chiesa anglicana, assistenti sociali o counselor, ricercatori, uomini e donne. Mi sentivo meno straniera lì come possibile assistente spirituale laica che non a Milano. Quello che mi colpì subito con piacere fu l’interesse personale da cui tutti erano mossi, una passione che metteva radici in una vocazione alla cura integrale della persona che era quella che aveva portato lì anche me, che allora lavoravo come filosofa all’Hospice dell’Istituto Nazionale Tumori Milano. Il desiderio che muoveva tutti i presenti era mettere in comune una ricerca fino a quel momento individuale e più o meno solitaria, trovarne i fondamenti comuni e avviare una possibilità formativa e informativa condivisa sul tema dell’assistenza spirituale portata avanti nell’ambito delle cure palliative.

La definizione di dimensione spirituale* prese spunto da quella già fornita da Puchalski e ne modificò alcuni aspetti. Il risultato fu una definizione lasciata volutamente aperta, da arricchire e ampliare alla luce delle esperienze cliniche che sarebbero seguite. Infatti venne chiamata “working definition”, cioè una definizione mobile, complessa e articolata, intessuta di teoria e pratica, religiosità e laicità, proprio ad invitare un dialogo articolato, aperto e permanente tra visioni e pratiche che devono integrarsi e interrogarsi costantemente.

La cosa che più mi piacque di quell’incontro di tre giorni fu che era stato pensato come un vero e proprio ritiro spirituale, in un luogo immerso nella natura, un po’ isolato dal mondo, in cui attività di meditazione e scrittura si alternavano a dialoghi personali, riunioni di approfondimento teorico e racconti clinici. Esattamente quello che ritengo si debba fare per occuparsi della dimensione spirituale e formarsi ad essa: va studiata, va sperimentata in relazione al contesto di cura in cui ci si trova ad operare e va praticata a partire da sé stessi, accettando e mettendo in luce le questioni esistenziali che ci si pongono nella vita e tanto più ci scuotono di fronte alla sofferenza e alla morte. Perché sono domande universali che per ognuno prendono poi la forma che proviene dalla propria biografia e che a volte chiedono risposte, a volte una vicinanza che si può reggere solo se si accetta e si tollera quella condizione umana di vulnerabilità che può aprire alla disperazione quanto alla via del senso possibile, fino alla fine. Difficilmente possiamo accettare di trattare tematiche spirituali che i pazienti ci portano se non ci siamo mai occupati in maniera esplicita della nostra dimensione spirituale e della nostra mortalità.

I lavori del gruppo europeo procedono tutt’ora. Certo è che a partire da quel primo incontro molti passi avanti anche in Italia sono stati fatti: ai congressi della Società Italiana di Cure Palliative (SICP) si sono avviate in maniera decisa sessioni sul tema della spiritualità in cure palliative e si è iniziato a tematizzare la figura dell’assistente spirituale non necessariamente religioso. Ricordo in particolare il congresso di Trieste nel 2011 dove si tematizzò per la prima volta la “diagnosi spirituale” ed emerse che già da qualche tempo in alcuni hospice c’erano sperimentazioni interessanti in merito. Iniziavano così timide e controverse definizioni di assistente spirituale laico, si cercavano modelli e strumenti di intervento e ricerca che ancora andavano inventate o adottate da altre realtà estere e adattate al particolare contesto italiano.

Veniva inoltre tradotto a Bolzano e reso disponibile in italiano il documento olandese del 2013 “La cura spirituale”.

Oggi la spiritualità è materia costantemente presente all’interno della SICP, le sessioni al congresso nazionali sono sempre più frequentate e foriere di riflessioni, strumenti, contatti generativi. Molto si scrive e si è scritto negli ultimi anni per la qui presente Rivista, molte formazioni si sono avviate e il fermento e l’interesse intorno a questo tema e alla sua pratica è ampio. Evidentemente e per fortuna, direi, se ne sente il bisogno, se ne vede l’importanza, non in tutti, non ovunque, certo, ma il movimento è ampio e resta fertile e sfaccettato come credo sia giusto per una dimensione del genere. Dal 2019 è disponibile anche un core curriculum sull’assistenza spirituale (https://www.sicp.it/aggiornamento/core-curriculum/2019/12/core-curriculum-per-lassistenza-spirituale-in-cure-palliative/), un primo passo da usare come spartito di base per tenere aperto l’ascolto dei movimenti che ci sono e ci saranno in questo ambito. Non credo debba essere un tentativo di definizione statica, ma una traccia a cui tornare costantemente e da cui ripartire alla luce della pratica e della teoria in evoluzione.

Un modello di riferimento interessante e ampio, che prende avvio dalla filosofia antica e quindi aperto a soggetti religiosi e non, è certamente quello proposto da Carl Leget che dell’incontro in Olanda del 2010 fu l’ideatore e il coordinatore (Carlo Leget, Art of Living, Art of Dying. Spiritual Care for a Good Death, 2017). Un modello che ha come obiettivo l’esplorazione della dimensione esistenziale del soggetto: uno strumento agile che persegue il “ben vivere e il ben morire” di epicurea memoria e che evidenzia con chiarezza e semplicità le aree di indagine e d’intervento possibili: la speranza, la colpa e il perdono, l’autonomia, le relazioni e la sofferenza. Aree esistenziali universali che l’operatore viene invitato ad indagare affinché prima di tutto si crei una relazione di fiducia e di ascolto su questioni di cui raramente ci si occupa in ambito sanitario e poi perché emerga la possibilità di una cura centrata sul paziente, sulla sua visione della vita e del dolore, sulla sua possibilità di trovare un senso a ciò che accade muovendosi all’interno della personale storia di vita, sulla sua visione del futuro, sui suoi valori di riferimento, i suoi rimpianti e i suoi desideri o timori. Un modello che quindi accolga la persona nella sua interezza e nella sua complessità, e permetta una tessitura di significati che nascono anche dal dialogo e dalla vicinanza con l’operatore.

Un modello che ritengo buono proprio perché ampio: tratteggia una mappa per muoversi nella relazione e nell’ascolto del paziente senza limitare le vie percorribili, senza imporre risposte precostituite o valori di riferimento già dati; un processo che lascia spazio alla libertà e alla responsabilità degli interlocutori in gioco, che permette la vicinanza e il rispetto senza i quali nessun percorso di cura che abbia a cuore la dimensione spirituale della persona malata è possibile1.

*“Spirituality is the dynamic dimension of human life that relates to the way persons (individual and community) experience, express and/or seek meaning, purpose and transcendence, and the way they connect to the moment, to self, to others, to nature, to the significant and/or the sacred”.

Conflitto di interessi: l’autrice dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Campanello L. Sono vivo ed è solo l’inizio – riflessioni filosofiche sulla vita e sulla morte. Milano: Mursia 2013.

Dalla routine alla complessità

MARIO CAGNA

Assistente spirituale e assistente religioso, Lavagna e Chiavari (GE)

Fin dalla nascita delle cure palliative ci si è resi conto che, per una presa in carico del cosiddetto dolore globale o total pain, deve essere valutata anche la dimensione spirituale. Sappiamo che fin dai primi contatti con il paziente sarebbe utile valutare se esista un distress spirituale, quale impatto esso abbia e, per contro, se esistano delle risorse spirituali da sostenere per affrontare al meglio il percorso di malattia e, eventualmente, di fine vita. E. Johnston Taylor, in un articolo pubblicato nel 2020 su Journal of Hospice and Palliative Care, propone “5 cose da ricordare”: 1) comprendere che la spiritualità si manifesta in una miriade di modi e che non è la stessa cosa della religiosità; 2) effettuare lo screening per il disagio spirituale e successivamente condurre una storia o una valutazione spirituale; 3) ricordare che la spiritualità non è solo qualcosa da valutare al momento del ricovero; 4) sapere che ci sono molti modi per valutare la spiritualità (non è semplicemente come un paziente risponda verbalmente ad una domanda sulla spiritualità o religiosità); 5) ricordare che la stessa valutazione può avere valore terapeutico1.

Per fare questo occorre che un operatore di cure palliative sia (e si senta) preparato. Questo è un passaggio per nulla scontato.

Infatti quasi sempre l’operatore di cure palliative è in difficoltà, perché avverte mancanza di conoscenze sulla spiritualità ed incertezza sul ruolo quale operatore sanitario nella cura spirituale; vive un’inconsapevolezza della propria spiritualità; se credente può sentire come ostacolo l’avere una fede diversa da quella del paziente; si sente incompetente nell’affrontare i bisogni spirituali; avverte la mancanza di modelli (ruolo professionale), la mancanza di tempo e il sovraccarico di lavoro2.

Ci si muove, allora, tra un’esigenza profonda del paziente e una mancanza di cultura, strumenti, formazione personale.

Si avverte che “manca qualcosa” peraltro necessario per la maggior parte dei pazienti. Infatti Tiziano Terzani scriveva: “…anche i miei medici tenevano conto esclusivamente dei fatti e non di quell’inafferrabile altro che poteva nascondersi dietro i fatti, ... ma io sono anche una mente, forse sono anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni che con la mia malattia hanno probabilmente avuto un sacco a che fare!”. “Non persi la fiducia nei medici a cui mi ero affidato, anzi. Ma più li conoscevo più sentivo che erano come violini cui mancava una corda3.

Manca anche una vera definizione di spiritualità nella clinica, pur avendone a disposizione di preziose e competenti in letteratura.

Il sistema sanitario pubblico di Scozia (NHS-Scotland) nel 2021 ha pubblicato una nuova edizione di “Spiritual Care Matters, An Introductory Resource for All NHS Scotland Staff” (La cura spirituale è importante. Una risorsa introduttiva per tutto il personale del NHS Scotland)4. In questo documento, qui in una nostra traduzione e adattamento, NHS riporta quanto ha scritto un giornalista, Nick Thorpe: Spiritualità è una parola sfuggente, scivolosa di questi tempi; coinvolge qualsiasi cosa, dal monachesimo ai campanelli a vento; però io non ho mai saputo resistere a un “piccolo ritocco sotto il cofano” dell’anima. Non più convinto dagli assoluti religiosi della mia infanzia, desideravo comunque qualcosa che li sostituisse, un credo praticabile con cui affrontare la vita5.

NHS Scotland scrive: Riconosciamo l’importanza di rispondere ai bisogni spirituali di ogni tipo nell’ambiente sanitario. La cura spirituale, nel suo senso ampio e inclusivo (un credo praticabile), può forse aiutarci, poiché è quella cura che riconosce e risponde a convinzioni e bisogni umani fondamentali di fronte a traumi, problemi di salute ed il loro impatto globale sulla persona.

Può includere la necessità di senso e significato, di autostima, di espressione, di un sostegno di un gruppo di appartenenza, forse di riti o di preghiere o di sacramenti, o, semplicemente, di un ascoltatore sensibile.

La cura spirituale inizia con la “compassion” in tutti i nostri contatti umani, ed in modo speciale nell’assistenza sanitaria, e si muove in qualunque direzione il bisogno richieda.

La maggior parte delle persone rispetto alla spiritualità si trova da qualche parte di uno spettro che va dal secolarismo razionale fino ad una religione intesa in modo fondamentalista. Molti si trovano contemporaneamente tra certezze religiose di un’epoca passata ed una lucida razionalità, hanno valori e credenze, ma non trovano facile dire esattamente la propria appartenenza.

In questo contesto sdrucciolevole può essere utile rifarsi alla “definizione di consenso” di spiritualità6. Questa definizione riprende e sviluppa la “working definition” a cui accennava Laura Campanello più sopra. «Spiritualità: senso e significato, scopo, essere in relazione» una consensus definition: La spiritualità è un aspetto dinamico e intrinseco dell’umanità attraverso il quale le persone cercano il significato ultimo, lo scopo e la trascendenza e sperimentano la relazione con sé, la famiglia, gli altri, la comunità, la società, la natura e il significativo o il sacro. La spiritualità si esprime attraverso credenze, valori, tradizioni e pratiche”.

Volutamente e opportunamente il termine “religione” non è stato usato in questa definizione.

La spiritualità è quindi definita come una dimensione che vivono tutti gli esseri umani (“un aspetto intrinseco”), ma sappiamo anche che solo alcune persone sono religiose. Non è raro il dover prestare una assistenza spirituale, accogliere un ampio spettro di modi di vivere la spiritualità che va da persone solo spirituali a persone spirituali all’interno di una religione. Alcuni usano l’abbreviazione R/S (religiosity/spirituality), ma questo non risolve la “scivolosità” di questa parte delle cure palliative.

Il NHS Scotland descrive in modo interessante la cura spirituale e la sua relazione all’assistenza religiosa: Molti hanno trovato essere utili (anche se non pretendono di essere una spiegazione completa) le seguenti descrizioni.

L’assistenza spirituale è di solito fornita in un rapporto individuale, è completamente incentrata sulla persona e non fa ipotesi sulle convinzioni personali o sull’orientamento di vita.

L’assistenza religiosa viene prestata nel contesto delle credenze religiose, i valori, le liturgie e lo stile di vita di una comunità di fede.

L’assistenza spirituale non è necessariamente religiosa.

L’assistenza religiosa, al suo meglio, dovrebbe sempre essere spirituale7.

Se risulta abbastanza evidente quanto sia importante (e per qualche paziente decisivo) fornire una cura spirituale, molto meno evidente è: “come fare”? La Società Italiana di Cure Palliative ha preso a cuore da sempre questa dimensione, ma la domanda non esiste solo in Italia e le risposte sono ovunque ancora parziali.

Secondo me esistono due piani, parzialmente distinti.

Il primo è conoscere l’esistenza (ed addestrasti all’uso) di strumenti clinici per triage, screening, valutazione.

L’altro piano per prendersi cura del distress spirituale è quello che coinvolge la figura del curante. Credo si possa dire che il miglior strumento a disposizione in ogni équipe di cure palliative è la persona del professionista e la sua relazione con paziente ed équipe anche in riferimento alla spiritualità. Qui si aprono delle “praterie” di esigenza di formazione.

Cosa dire sugli strumenti clinici? Ci sono strumenti che danno un outcome numerico. Sono utili per una annotazione facile in cartella, per uno studio dell’andamento del distress spirituale: tutto questo è importante, ma non fornisce un aiuto immediato alla relazione di cura.

Poi ci sono strumenti pensati per instaurare un colloquio con il paziente entro il quale stilare una storia spirituale (a me piace parlare di anamnesi spirituale), valutare la situazione, aiutare il paziente a dar nome alla propria sofferenza (il che è già terapeutico) ad accedere alle proprie risorse interiori o comunitarie. Non è banale riportarne in cartella il risultato.

Torno sulla figura del curante: a chi spetta la cura spirituale? All’équipe di cure palliative. Su questo c’è una convergenza di chi studia la materia. Tuttavia le difficoltà riportate da Baldacchino2 portano spesso a rimandare ad altre figure.

Ma quanti assistenti spirituali competenti ci sono in Italia? Pochi e certamente non sono presenti in tutte le équipe. Sono del tutto iniziali i percorsi di formazione dedicati agli assistenti spirituali. E poi non sottovalutiamo che il paziente ha bisogno di persone che, di fronte ad ogni suo sintomo, non fuggano, ma sappiano rimanere. Di fronte ad un sintomo refrattario fisico, ad un bisogno psicologico difficile da gestire abbiamo (abbastanza) imparato a saper rimanere. Sui bisogni spirituali, comprensibilmente, lo abbiamo imparato molto meno. Ma i nostri pazienti, indipendentemente dal tipo di sofferenza difficile, hanno bisogno che il palliativista non “scappi” chiamando un “esperto”.

Ancora il documento NHS parla di ruoli e formazione del personale e dice che il modello per fornire le cure spirituali è caratterizzato dal concetto di cure spirituali generiche e cure spirituali/pastorali specialistiche. I due approcci si distendono su un continuum. Di conseguenza, ci si aspetta che tutto il personale del NHS possieda o sviluppi le competenze generiche necessarie per fornire cure spirituali (generiche e di routine) e che ci sia del personale con competenze specialistiche che forniscano assistenza pastorale specialistica. Quest’ultimo gruppo comprende gli assistenti spirituali.

Il NHS scozzese ne parla in riferimento ad ogni setting di cura.

Tanto più, visto l’obiettivo di cura circa il total pain, ogni équipe di cure palliative dovrebbe saper fornire cure spirituali generiche o di base e cercare nel proprio territorio uno o più esperti per casi particolarmente complicati: ogni équipe dovrebbe saper gestire il passaggio dalla routine alla complessità.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Taylor E J. Initial spiritual screening and assessment: five things to remember. J Hosp Palliat Care 2020; 23: 1-4.

2. Baldacchino D. Spiritual care education of health care professionals. In Hefti A R. Büssing, integrating religion and spirituality into clinical practice. Basel: MDPI, 2018.

3. Terzani T. Un altro giro di giostra. Milano: Longanesi & Co., 2005.

4. Spiritual Care Matters, An Introductory Resource for All NHS Scotland Staff. https://learn.nes.nhs.scot/48983/person-centred-care-zone/spiritual-care-and-healthcare-chaplaincy/resources/spiritual-care-matters

5. Thorpe N. Adrift In Caledonia: Boat-Hitching for the Unenlightened Little. Boston: Brown Book Group, 2007.

6. Puchalski CM, Vitillo R, Hull SK, Reller N. Improving the spiritual dimension of whole person care: reaching national and international consensus. J Palliat Med 2014; 17: 642-56. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/24842136/

7. Scottish Executive Health Department HDL (2002) 76: Guidelines On Chaplaincy And Spiritual Care In The NHS In Scotland, 2002, from “Spiritual Care Matters”, 2021.

Temi afferenti alla dimensione spirituale della cura

GUIDO MICCINESI

Psichiatra ed epidemiologo, Firenze

La definizione di spiritualità proposta dalla European Association for Palliative Care (EAPC) coniuga prospettive diverse, dando potenzialmente spazio a molteplici punti di vista: è densa, difficile. Ma si preoccupa anche pragmaticamente di dire: stiamo parlando di significati personali, di senso della vita, di valori e scopi di una vita personale, di vissuti religiosi. Cose semplici, che tutti condividiamo.

Come per altri aspetti della dimensione spirituale della cura, l’accordo su cosa vogliamo indicare con l’introduzione di questi temi come contenuti della dimensione spirituale è però meno facile di quello che sembra. La nostra proposta è di non esaurirli in liste chiuse ma procedere – al fine di comprenderli – per esempi realmente vissuti sui quali ci si ferma per interiorizzarli, riprendendoli e ripercorrendoli con tutto il carico immaginativo ed emotivo di cui possono essere ricchi tanto in momenti di raccoglimento, in modo cioè riflessivo ma non astratto, quanto nella condivisione viva – anche non formalizzata – col gruppo di lavoro delle cure palliative. Quella comparazione ‘tanto quanto’ è il punto importante da cogliere, l’equilibrio da realizzare. A livello teorico e formativo, poi, il suggerimento è di aprirsi alle discipline che più hanno lavorato (su) questi campi, facendone uscire frutti sempre più interessanti.

Ad esempio molte psicologie hanno contribuito ad esplorare largamente, nei loro setting ben ordinati di ricerca, diagnosi e intervento, i significati personali di più alto ordine, o ‘nucleari’; questi stessi significati ‘ultimi’, in un setting di alta sofferenza, con il disordine e le compressioni del tempo e dello spazio che questo comporta, possono essere riconosciuti piuttosto attraverso un accompagnamento discreto e attento, che certo non indaga sistematicamente ma piuttosto ricorre ad euristiche sempre nuove: quando attraverso i racconti della propria storia di vita da parte dei pazienti più aperti e più integri, e spesso anche dei familiari che già vivono un lutto anticipatorio; quando cogliendo in pochi attimi le espressioni fugaci di aspetti che una persona ritiene principali nell’assistenza (a volte una finestra aperta sul giardino, a volte un segno nella stanza che ricorda la vita fino ad allora vissuta con intensità, a volte una reciproca gentilezza rituale scambiata con chi assiste); capita anche che sia concessa senza veli la partecipazione trasparente e vulnerabile dell’accompagnatore a espressioni di dolore commoventi liberamente offerte – in genere solo dopo un periodo di familiarizzazione e di test relazionali – dalle persone che si accompagnano; a volte infine procedendo per pura intuizione, sul momento non consapevole dei contenuti ma sempre consapevolmente tesa verso il paziente e i suoi cari: indicazioni sulla vita interiore che giungono forse per associazioni subliminali con qualche segno presente nell’ambiente di cura, o con qualche riflesso singolare della relazione di cura cui si partecipa o cui si assiste. Improvvisamente si capisce, e una volta capito si sa accogliere e dare giusto risalto ai significati personali di quel particolare malato, coniuge, padre, sorella, figlia. Come una bussola che ogni volta indica un nuovo nord per riprendere a viaggiare insieme in uno spazio infinito.

Molti di questi incontri con i significati ultimi di una persona che si intende accompagnare in un ambiente di cura e in una sofferenza intensa sono subitanei e inattesi e tali da suscitarci meraviglia. Magari il significato ultimo che emerge è l’attesa di un essere che ti salverà dalla morte, perché tu sei speciale; magari invece l’attesa di un destino di riposo dopo una vita di lavoro, che la malattia ha sì vanificato come progetto personale ma che è sempre lì come senso della vita, come significato mai spento della propria vita (la mia vita doveva finire nel gioco, nella condivisione, nel riposo), come destino che si passa ad altri. Accogliere e valorizzare i significati ultimi degli altri porta ad allargarsi a comunioni inattese.

Le psicologie insegnano che senza centrarsi bene per l’ascolto, dimenticandosi cioè dell’attaccamento a noi stessi, senza svuotarsi del bisogno di fare bene o di fare del bene, senza entrare in momenti di tempo dilatato nel quale possiamo dimenticare il nostro orologio – oltre che, ovviamente il nostro cellulare –, e senza per primi farsi portatori di nient’altro che di una umanità comune, questi momenti non avvengono. Tutti questi ‘senza’, e diversi altri, dipendono da un lavoro personale continuo e sincero che chiede tanta energia: possiamo non essere sempre in grado di farlo, è bene riconoscerlo. Le psicologie aiutano anche in questo. Costruire reti di accompagnatori spirituali che si confrontino e si guariscano a vicenda delle cicatrici personali che irrigidiscono e rendono più difficile questa fluidità personale sarà un passaggio importante del prossimo futuro.

Le psicologie di oggi sono tanto più di questo, e negli anni contribuiranno con esperimenti originali, con adattamento di tecniche per sostenere meglio un setting così diverso dai loro setting originali, e forse anche con la creazione di linguaggi più universali per aiutarci a parlare del particolare e individuale. Aspettiamo e vediamo. Ma che dire dei valori, cioè della bioetica? Siamo a 50 anni dall’introduzione del temine stesso, la piegatura che ha preso la bioetica sembra essere prevalentemente ‘descrittiva’, come cioè le persone mediamente si comportino in situazioni di scelta cariche di valore personale e sociale, o ‘normativa’, come le persone debbano comportarsi o almeno entro quali limiti possano legittimamente scegliere. Questo con la spiritualità ha poco da condividere. Ma la crisi stessa dell’etica postmoderna, la mancanza di un fondamento razionale universalmente accettato (la convergenza sulla autodeterminazione è più politica e giuridica che logica), la possibilità che al fondo dell’etica stiano ancora oggi delle virtù e delle pratiche storicamente situate hanno aperto negli ultimi anni anche a una forma di bioetica meno interessata alla norma – cioè in definitiva alla ‘misura’, al canone – e più interessata al destino personale: la persona che divento con le mie scelte di valore.

Non è infatti questione di preferenze decidere una sedazione di fronte a un dolore dell’anima che non ci molla più, rinunciare a una intubazione o al contrario accettarla, lasciare una eredità spirituale di questo o quel tipo. Qui la bioetica tocca il campo della libertà del senso che è comune ad ogni realizzazione della dimensione spirituale, la quale quasi non esiste (la dimensione spirituale) senza di essa (la libertà del senso). Una dimensione spirituale libera ed espressa nelle scelte di valore presuppone una spiritualità totale, una spiritualità personale cioè che faciliti l’incontro totale con le altre persone oltre le definizioni di ruolo e che va costantemente promossa specie nei soggetti fragili. Mettere la questione dei valori tra i contenuti della spiritualità vuol dire passare dalle preferenze espresse nei momenti banali della vita alle scelte fatte quando si conosce l’irreversibilità della scelta, la definitività e il valore comunicativo che ha per coloro che ci amano. Mettere i valori tra i contenuti della spiritualità vuol dire aprirsi alla ricerca dei valori personali e alle strade migliori per fare questo: a volte in poco tempo, a volte avendo pochi frammenti di una storia di vita su cui far leva per cercare ugualmente di essere di aiuto, a volte scrollandosi vigorosamente di dosso il peso imposto da chi vorrebbe sostituirsi alle scelte ultime di un’altra persona. La dignità delle scelte deve essere sorretta dalla cura della dimensione spirituale perché ne è una espressione.

Significati ultimi e scelte ultime come manifestazione della spiritualità personale. E la religione? Il rito religioso? Quando il documento della EAPC è stato pubblicato, dieci anni fa, era comune parlare di religiosità/spiritualità. Quel trattino indicava una litigiosità irrisolta, la pretesa di poter giudicare la religiosità come falsa se non accompagnata da una spiritualità personale espressa in termini umani e universali, in contrasto con la pretesa – simmetrica – di considerare fumosa e inconcludente la spiritualità che non aderisse a specifiche credenze, a definite appartenenze comunitarie, a una moralità ben codificata e a una ritualità costituitasi, un po’ misteriosamente, in epoche antiche.

Niente di male in nessuna delle due posizioni, ma di fatto entrambe sono ‘eresie’ nel senso proprio di scelte che tagliano via una parte essenziale di un insieme, in questo caso l’insieme della spiritualità stessa come la abbiamo ereditata dalla capacità creativa dell’uomo, l’essere vivente e intelligente emerso da miliardi di storia di evoluzione del vivente e della materia stessa. Avere oggi adottato ampiamente l’idea di una dimensione umana universale, che indichi cioè il rapporto universale col trascendente comunque inteso, una dimensione quindi inclusiva anche dei percorsi particolari delle religioni oltre che di quelli atei e agnostici – altrettanto particolari –, è stato un grande passo avanti senza il quale questo stesso editoriale probabilmente non avrebbe visto la luce.

Accettare cioè che tutti gli uomini sono spirituali mentre alcuni sono anche religiosi: era così semplice! Occorre ora solo un passo ulteriore: recuperare il significato del rito religioso, così importante in termini pratici all’interno di degenze intensive e a volte addirittura definitive, nel mezzo cioè di rapporti carichi di relazione di cura intensa. Perché il rito? Perché il senso dei riti religiosi è creare un rapporto col trascendente, accedere a una relazione affettiva con esso, completare il circolo della cura. In termini pratici questo vuol dire riconoscere il significato relazionale affettivo, e non strategico o meccanicistico, del rito religioso e la necessità di educarsi all’accompagnamento anche attraverso la conoscenza di questi aspetti in tutte le loro ricchissime sfaccettature.

Bibliografia

1.Gilbert P, Simos G (eds). Compassion focused therapy: clinical practice and applications. London: Routledge, 2022.

2.Hayes S. La mente liberata. Come trasformare il tuo pensiero e affrancarti dallo stress, ansia e dipendenze. Firenze: Giunti, 2020.

3.Macintyre A. After virtue: a study in moral theory. Notre Dame (Indiana): University of Notre Dame Press, 1984.

Conclusioni

Chi legge questo editoriale vi trova una storia della presa a cuore di un tema umanissimo, qual è quello della spiritualità, è condotto attraverso le, sempre più sentite, esigenze di formazione per arrivare ad un pensiero raffinato che diventa sintesi di una storia di pensiero e di cura.

Il Congresso Nazionale della SICP di novembre 2023 parlerà di dignità e complessità, due argomenti che la spiritualità nelle cure non può evitare. Nell’editoriale si trovano tre stili differenti: non solo di scrittura ma anche di approccio al tema della spiritualità. Anche in riferimento al tema del nostro prossimo congresso non abbiamo voluto uniformare il testo, perché questa variabilità è parte integrante dell’affrontare il tema della spiritualità nella cura.

Ci sono modalità diverse di vivere la spiritualità e di prestare assistenza spirituale: la cosa preziosa è che nella diversità ci si capisce. La spiritualità è personale, dinamica, ma poiché è “cosa umana” ci è comprensibile pur nelle differenze. La complessità non ci spaventi, ma ci affascini e porti a custodire la dignità in noi e nelle persone che curiamo.