La disattivazione dei dispositivi cardiaci impiantabili alla fine della vita

MASSIMO ROMANÒ1, GIOVANNA GORNI2

1Comitato Ordinatore Master Universitario di II Livello in Cure Palliative, Università degli Studi, Milano; 2SC Cure Palliative-Hospice, ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Milano.

Pervenuto il 10 gennaio 2020. Accettato il 16 gennaio 2020

Pubblicato su G Ital Cardiol 2020; 21: 286-95.

Riassunto. La cura del paziente con scompenso cardiaco (SC) può avvalersi di terapia farmacologica, chirurgica e di dispositivi impiantabili per la prevenzione primaria della morte improvvisa (defibrillatore impiantabile [ICD]), per la terapia della disfunzione ventricolare sinistra in presenza di blocco completo di branca sinistra (terapia di resincronizzazione cardiaca) eventualmente associata a ICD, per il supporto meccanico al circolo nelle fasi più avanzate di malattia (dispositivi di assistenza ventricolare sinistra [LVAD]). Nel corso del follow-up questi pazienti possono andare incontro a morte per la progressione della malattia o per patologie gravi concomitanti (neoplasie, insufficienza multiorgano, eventi cerebrovascolari acuti), senza che i dispositivi siano in grado di modificare l’evoluzione dello SC. I pazienti con ICD possono morire per morte non improvvisa, senza che il dispositivo abbia mai erogato shock appropriati sino alle ultime fasi della vita, in una percentuale di circa il 30% dei casi, soprattutto nelle ultime 24 h. La terapia con LVAD è soggetta a complicanze specifiche che la rendono imperfetta: le infezioni, gli eventi embolici ed emorragici (soprattutto quelli neurologici) e lo SC destro. Inoltre, durante il supporto possono manifestarsi altre patologie, in particolare nei pazienti che ricevono dispositivi di assistenza ventricolare come “destination therapy”. Per tali motivi, con tutti questi dispositivi si può porre, nelle fasi finali della vita, il quesito se disattivarli o lasciarli attivi sino alla morte del paziente. Il quesito riguarda come risparmiare al paziente con ICD frequenti e dolorosi interventi del dispositivo o ai malati con LVAD il prolungamento della vita, con sofferenza legata alle complicanze, senza sostanziale miglioramento della durata e della qualità della vita residua. In questo lavoro sono analizzate le problematiche etiche, cliniche e comunicazionali concernenti la disattivazione dei dispositivi cardiaci impiantabili alla fine della vita, con particolare riferimento alla necessità di definire una pianificazione condivisa delle cure e di coinvolgere precocemente il palliativista, in particolare nei malati con LVAD.

Parole chiave. Assistenza meccanica al circolo, cure palliative, defibrillatore impiantabile, disattivazione dei dispositivi cardiaci impiantabili, scompenso cardiaco.

The deactivation of cardiac devices implantable at the end of life.

Summary. Treatment of patients with heart failure is based on drugs, cardiac surgery and implantable cardiac devices to prevent sudden cardiac death (implantable cardioverter-defibrillator [ICD]), to reverse left ventricular dysfunction associated with left bundle branch block (cardiac resynchronization therapy) or mechanical circulatory support in more advanced phases of heart failure (left ventricular assist devices [LVAD]). During the follow-up, patients may die from progression of their underlying heart disease or from non-arrhythmic causes, such as malignancies, multi-organ failure, stroke, etc., without benefits by implanted devices. Patients implanted with ICD could die from non-arrhythmic causes, without appropriate shocks until the last few days or weeks of their life. These events occur roughly in 30% of patients, mainly in the last 24 h before death. LVAD therapy may induce significant complications, such as infections, hemorrhagic stroke, thromboembolism, right ventricular failure. In these cases, inappropriate and even appropriate shock deliveries by ICD can no longer prolong life and may simply lead to pain and reduced quality of life, as well as LVAD may prolong life with painful distress due to complications. Therefore, it appears important to discuss early with the patients and their relatives about deactivation of ICD or LVAD at the end of life. The goal of this paper is to provide an overview of the ethical, clinical and communication issues of cardiac implanted device deactivation, with a special focus on issues associated with advance care planning, which require shared decision-making, including those related to end of life decisions (advance directives). Palliative care should be early implemented, particularly in patients with LVAD.

Key words. Heart failure, implantable cardioverter-defibrillator, implanted cardiac device deactivation, mechanical circulatory support, palliative care.

Introduzione

Il trattamento del paziente con scompenso cardiaco (SC) si può avvalere, al meglio della terapia farmacologica e chirurgica, di dispositivi impiantabili per la prevenzione primaria della morte improvvisa (defibrillatore impiantabile [ICD]), per la terapia della disfunzione ventricolare sinistra in presenza di blocco completo di branca sinistra (terapia di resincronizzazione cardiaca) eventualmente associata a ICD, per il supporto meccanico al circolo (dispositivi di assistenza ventricolare sinistra [LVAD])1.

Con tutti questi dispositivi si può porre, nelle fasi finali della vita, per l’aggravamento dello scompenso, per insufficienza multiorgano, per eventi cerebrovascolari acuti o per patologie concomitanti quali le neoplasie, il quesito se disattivarli o lasciarli attivi sino alla morte del paziente2-5. La scelta presenta problematiche cliniche, etiche e relazionali molto importanti, con differenze fra i vari dispositivi.

I cardiologi sono in generale in ritardo nell’affrontare queste tematiche, per motivi culturali, formativi ed emozionali6,7 e provano grande disagio nell’avviare la discussione con il paziente e i familiari circa la condivisione delle scelte di cura e di fine vita8. Ciò comporta una scarsa attenzione alla qualità di vita e ai bisogni dei pazienti con SC avanzato e in fase terminale, compromettendo un ottimale rapporto di cura col paziente.

Defibrillatori cardiaci impiantabili

L’impianto di ICD in prevenzione primaria della morte improvvisa è indicato in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra postinfartuale o affetti da SC di qualsivoglia eziologia9,10, pur con più recenti rivalutazioni nei pazienti con SC ad eziologia non ischemica11.

In Italia il numero totale degli impianti di ICD registrati nel 2017 è stato di 19.023, di cui 11.281 primi impianti e 4132 sostituzioni12. Nell’ambito della popolazione generale (primi impianti più sostituzioni), 12.406 impianti (77,8%) hanno riguardato la prevenzione primaria della morte improvvisa. Si stima che il Registro Italiano Defibrillatori abbia incluso l’85% circa dell’attività in Italia, secondo i dati forniti da Assobiomedica. Rispetto al 2016 l’impianto per prevenzione primaria della morte improvvisa ha registrato un incremento del 2,7%.

Nello studio MADIT II13 il rischio relativo di morte a 20 mesi nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra postinfartuale e sottoposti ad impianto di ICD, rispetto al gruppo in trattamento convenzionale, è ridotto del 31%, quello assoluto del 5,6%, mentre a 8 anni il rischio relativo è ridotto del 34%, quello assoluto del 13%14. Nei pazienti con SC, il rischio relativo di morte è ridotto del 33%, quello assoluto del 7,2% a 5 anni15.

La percentuale annua di shock erogati (appropriati e non appropriati) è variabile negli studi principali: è del 7,5% nello studio SCD-HeFT15 (trial randomizzato, con follow-up medio di 5 anni), con il 5,1% annuo di shock appropriato su tachiaritmie ventricolari maligne, mentre in un ampio registro svedese16 (follow-up medio di 3 anni) la percentuale totale di shock è stata dell’8,4% (shock appropriati 6%/anno, shock inappropriati 2,4%/anno).

I pazienti sottoposti ad impianto di ICD in prevenzione primaria, nel corso di un follow-up prolungato (5-8 anni)14, andranno incontro, nella maggior parte dei casi, a morte non improvvisa, per progressione della cardiopatia o per altre patologie gravi, quali neoplasie, malattie neurologiche degenerative, demenze, senza che il dispositivo abbia mai erogato shock appropriati sino alle ultime settimane o giorni di vita. In uno studio che ha analizzato i dati della memoria dell’ICD in 125 pazienti deceduti, affetti da SC e portatori di ICD, in una minoranza di casi la morte è stata di natura aritmica (13%), mentre nel 37% era secondaria alla progressione dello SC e nel 38% da causa non cardiaca17.

L’allungamento del tempo di riconoscimento dell’aritmia consente di ridurre il numero totale di shock, appropriati ed inappropriati, ed un maggiore utilizzo delle terapie antitachicardiche18. Tuttavia, la presenza del dispositivo è correlata ad ansia e depressione in circa il 20% dei pazienti19, percentuale che raddoppia nei malati che hanno ricevuto shock, appropriati ed inappropriati, con una relazione dose-risposta: più shock ricevuti maggiore ansia20. Il dolore intenso provocato dallo shock, la sensazione di insicurezza e più in generale la paura di morire sono i principali determinanti della reazione psicologica20.

Il quesito principale, nei malati con grave deterioramento delle condizioni cliniche generali e alla fine della vita, a rischio di ricevere shock dolorosi e frequenti, senza sostanziale vantaggio in termini di sopravvivenza, ma con peggioramento della qualità di vita, è se e come procedere alla disattivazione del dispositivo impiantato. In primo luogo va analizzata la frequenza con cui gli shock da ICD si verificano nelle ultime fasi della vita: nella tabella 113,17,21-24 sono riportati i dati relativi alle rilevazioni presenti in letteratura riguardanti la frequenza di shock elettrici alla fine della vita, da cui emerge che essi vengono erogati molto frequentemente negli ultimi giorni o ore di vita, spesso con le caratteristiche della tempesta aritmica.




È quindi ormai più che attuale la problematica concernente la disattivazione dell’ICD nei pazienti alla fine della vita17,21-23,25-28, in ciò supportata dalle raccomandazioni delle società scientifiche2,8,29.

Problematiche etiche

I pacemaker (PM) e gli ICD fanno parte di tecnologie biomediche che sostengono o sostituiscono funzioni vitali transitoriamente o stabilmente compromesse30,31. Gli ICD erogano una terapia intermittente, mentre i PM possono erogare terapie continue (in pazienti PM-dipendenti o con PM biventricolari per la resincronizzazione cardiaca) o intermittenti (in pazienti non PM-dipendenti).

Può essere controversa, sul piano etico, la scelta concernente la disattivazione del semplice PM nei pazienti PM-dipendenti, poiché la disattivazione provocherebbe la morte immediata del paziente, mentre il dispositivo non determina sintomi di alcun tipo. Nel caso comunque in cui il paziente, in fase terminale di qualsiasi malattia che determini sintomi refrattari, chieda la disattivazione del PM si porrebbe un problema per certi versi analogo, ad esempio, a quello del paziente con sclerosi laterale amiotrofica e sottoposto a ventilazione meccanica, che decida di interrompere il supporto ventilato-rio. La legge 219/2017 può supportare la decisione, che non configurerebbe né un caso di suicidio assistito né di eutanasia, in quanto la morte sopravverrebbe a causa della malattia e non per un trattamento specifico erogato dall’esterno. Nel caso di pazienti non PM-dipendenti e in quelli sottoposti a stimolazione biventricolare, la disattivazione non provoca la morte immediata o in tempi rapidi, ma può peggiorare la qualità di vita del paziente, determinando bradicardia sintomatica o deterioramento emodinamico, contravvenendo a uno dei principi della palliazione.

Uno dei quesiti etici relativi alla disattivazione di un ICD alla fine della vita fa riferimento alla natura di un dispositivo cardiaco una volta che è impiantato: è parte indivisibile del paziente e quindi disattivarlo può configurare un atto di tipo eutanasico? Le raccomandazioni delle società scientifiche a riguardo2,29 riprendono e fanno proprie le tesi di Daniel Sulmasy, bioeticista cattolico30,31, secondo il quale vanno fatte alcune distinzioni fra le differenti forme di terapia. Secondo Sulmasy le terapie di qualsiasi tipo possono essere suddivise in due tipologie: terapie “regolatrici” e terapie “costitutive”. Le prime hanno lo scopo di riportare l’organismo al suo equilibrio omeostatico: ad esempio farmaci antiaritmici, antipiretici e gli ICD. Le seconde invece si fanno carico di una funzione che l’organismo non è più in grado di supportare (figura 1)30.




Le terapie “costitutive” sono a loro volta distinguibili in terapie totalmente sostitutive o di supporto: il primo caso (replacement therapy) identifica un dispositivo che diventa parte integrante del corpo e rimpiazza in toto una funzione fisiologica (organo trapiantato). Una terapia di supporto invece (substitutive therapy) si riferisce a trattamenti che sostituiscono una funzione in maniera differente da quanto succede nella persona sana (dialisi, ventilazione meccanica, apparecchi di assistenza meccanica al circolo [VAD]), non diviene parte integrante del corpo del paziente e necessita di supporto tecnico esterno.

Queste distinzioni possono sostenere la decisione di disattivare o meno un dispositivo30-32. Non è etico “disattivare” un organo trapiantato, per esempio somministrando farmaci potenzialmente letali per l’organo, mentre lo è per quanto concerne la dialisi o la ventilazione meccanica, in particolari contesti clinici, soprattutto alla fine della vita33.

Gli ICD sono in generale identificabili quale terapia regolatrice2,17,21,25,26,28,29 poiché rispondono al requisito di riportare il ritmo cardiaco al suo equilibrio, alterato da un’anomalia transitoria: secondo tale impostazione è etico disattivarli. A sostegno dell’eticità della disattivazione degli ICD alla fine della vita possono essere richiamate differenti giustificazioni etiche, sia quella principialista sia quella della sacralità della vita. La prima fa riferimento ai quattro principi della bioetica: autonomia (rispetto per le decisioni del paziente), beneficialità (proporsi il bene del paziente), non maleficialità (primum non nocere), giustizia distributiva (garantire al paziente libero accesso alle cure). La disattivazione dell’ICD risulta moralmente accettabile se rispetta l’autodeterminazione del malato e se promuove il suo bene evitando un male. La seconda, o etica dell’indisponibilità della vita, è caratterizzata dal divieto di interferire con il finalismo intrinseco alla vita umana34.

La giustificazione della disattivazione dell’ICD in questa visione etica si fonda sulla dottrina del doppio effetto, che ritiene moralmente lecito attuare un trattamento che abbia un effetto positivo (alleviamento delle sofferenze) e un ipotizzabile effetto negativo (ipotetica abbreviazione della vita), a condizione che vengano rispettati alcuni requisiti: 1) l’azione causante gli effetti non è in sé cattiva, ma buona o neutra; 2) gli effetti buono e cattivo conseguono entrambi contemporaneamente all’azione, ossia l’effetto buono non si ottiene mediante o dall’effetto cattivo; 3) l’intenzione è orientata al bene o all’effetto buono; l’effetto cattivo non è voluto, ma solo previsto o permesso; 4) il rapporto fra effetto buono voluto ed effetto cattivo tollerato è ragionevolmente proporzionato.

Non sembrano emergere pareri contrari da un’analisi degli orientamenti in merito delle varie religioni35.

Sul piano etico la disattivazione di un ICD è quindi un’opzione possibile e coerente con l’approccio palliativo di fine vita: la morte non è immediata, è dovuta alla progressione finale della patologia sottostante, non all’introduzione di una nuova patologia o all’intenzione di porre attivamente fine alla vita del paziente, anche se in accordo con quest’ultimo: e quindi non assimilabile all’eutanasia o al suicidio assistito30,31.

Indipendentemente dal significato attribuito ai dispositivi, tutti gli autori sottolineano l’importanza della condivisione delle scelte con il paziente e il rispetto della sua autonomia, secondo alcuni l’unico elemento da considerare per esprimere un giudizio etico2,25,26. L’autonomia del paziente consapevole è il principio sovrastante qualsiasi decisione. In caso di paziente non consapevole la scelta relativa alla disattivazione dell’ICD dovrebbe seguire una scala gerarchica composta da36:

1. presenza di direttive anticipate, secondo la legge 219/201737;

2. in assenza di direttive anticipate, si deve far ricorso al cosiddetto giudizio sostitutivo, vale a dire alle volontà e ai desideri espressi in precedenza dal malato ai familiari o al team di cura, pur tenendo conto delle difficoltà pratiche che talora questa soluzione comporta36;

3. in assenza delle due condizioni precedenti va individuato il miglior interesse del paziente, basato sul bilancio fra i benefici attesi e la gravosità del trattamento, vale a dire i costi in termini di sofferenza che il paziente deve sopportare a fronte dei benefici attesi, secondo il principio di proporzionalità.

Ovviamente non è eticamente permesso decidere di disattivare l’ICD unilateralmente, contro il parere del paziente, dei familiari o del fiduciario, anche quando il medico ritenga che mantenerlo attivo rappresenti un atto futile38,39.

Un aspetto correlato riguarda la scelta di sostituire o meno un ICD per esaurimento della batteria, in particolare nell’anziano: in una condizione simile viene considerato corretto procedere ad una rivalutazione generale del caso, con possibile variazione del quadro clinico che aveva condotto al primo impianto e ad un bilancio dei rapporti fra obiettivi di cura, qualità di vita, costi e complicanze della sostituzione40. Peraltro in malati sottoposti a sostituzione del generatore non è trascurabile il rischio residuo di trattamenti appropriati da parte dell’ICD, anche in pazienti di età avanzata, in assenza di interventi nel corso del primo impianto41; ciò si può verificare anche con sola moderata disfunzione ventricolare sinistra42.

Informazione e consapevolezza dei pazienti

In generale, dalla letteratura emerge un ampio gap fra ciò che i pazienti dovrebbero sapere e ciò che in realtà sanno circa le fasi finali della vita e su cosa dovrebbero fare in relazione alla gestione dell’ICD43,44 e una vasta eterogeneità di comportamenti e riflessioni da parte dei malati e dei medici curanti.

Le perplessità, talora la contrarietà45, da parte dei pazienti a disattivare un dispositivo impiantato nascono in prevalenza dalla grande disomogeneità di informazione sul reale impatto che un ICD può avere sulla qualità e sulla durata della vita e di pareri circa la possibilità di disattivarlo alla fine della vita.

In generale la prognosi dello SC è sovrastimata dai pazienti, anche nelle fasi più avanzate, rispetto agli score di rischio46.

In molti casi gli ostacoli a una pianificazione anticipata delle cure in pazienti con dispositivi impiantati sono secondari ad una somma di fattori, quali la sovrastima dell’impatto che i dispositivi stessi possono avere sulla progressione della malattia e sulla possibilità di morire, la scarsa comunicazione medico-paziente, la relazione con il progresso tecnologico che presuppone una capacità infinita da parte dei dispositivi di prevenire la morte, quasi una fede incondizionata, da taluni definita come abbraccio biotecnologico47: sostanzialmente una incompleta e scarsa informazione globale.

Questi dati confermano quanto era emerso nello studio di Stewart et al.48, che avevano intervistato 105 pazienti arruolati secondo le indicazioni dello studio SCD-HeFT: il 65% dei pazienti era portatore di ICD in prevenzione primaria e l’82% non aveva mai ricevuto shock. I pazienti sono stati interrogati su quante vite pensavano potesse salvare l’ICD in 5 anni (nello studio SCD-HeFT il 7,2%): il 77% riteneva fossero >10 e il 54% riteneva potessero essere >50. Di fronte a ipotetici scenari nei quali poter considerare la disattivazione, il 70% dei pazienti con ICD non si rendeva disponibile nemmeno in caso di fine vita per cancro, il 55% anche in presenza di ripetuti e giornalieri shock e nessuno era disponibile alla disattivazione pur nel caso di sofferenza intensa per dispnea continua a riposo.

La disattivazione dell’ICD non è considerata nemmeno nel novero delle scelte comprese nelle direttive anticipate: nello studio di Kinch Westerdahl et al.17 il 52% dei pazienti intervistati aveva espresso direttive anticipate, in particolare la disposizione “do not resuscitate” (DNR). Nonostante ciò, il 51% dei malati che avevano espresso disposizione DNR aveva ancora l’ICD attivato sino ad 1 h prima della morte e la disattivazione avveniva solo nel 49% dei casi, mediamente 4 giorni prima della morte.

In vari studi24,28,49-51, a fronte di percentuali di espressioni di direttive anticipate variabili dal 30% al 50%, vi era una percentuale minima (1-8%) che aveva formulato direttive anticipate specifiche per la disattivazione dell’ICD (tabella 2), tranne in uno studio numericamente piccolo24, in cui la disattivazione dell’ICD era presente nel 32% dei casi. Inoltre percentuali variabili dal 17% al 28% dei pazienti ritenevano che la disattivazione dell’ICD alla fine della vita equivalesse al suicidio assistito o all’eutanasia28,50,51.

La percentuale di pazienti informati al momento dell’impianto dell’eventualità di disattivare l’ICD è bassa e un significativo numero di essi preferirebbe discuterne alla fine della vita, a fronte tuttavia di una metà dei pazienti desiderosi di discuterne all’impianto (tabella 3)52-54.




In un ampio registro svedese su oltre 2400 pazienti portatori di ICD, il 40% di essi, indipendentemente dalla presenza di SC, non voleva discutere né della traiettoria della loro malattia né della disattivazione del dispositivo43. Solo in caso di shock ripetuti, di elevati livelli di ansia o di preoccupazione connessi alla presenza dell’ICD aumenta la disponibilità alla discussione, così come è scarsa anche la disponibilità dei medici.

Quello che quindi sembra incidere sulla disponibilità a discutere ed eventualmente avviare la disattivazione può essere la fase di malattia e la non candidabilità a trattamenti avanzati, quali il trapianto cardiaco o il supporto meccanico al circolo. Altrimenti che vi sia o meno un intervento attivo sul piano della comunicazione non pare sortire risultati particolari55.

Un caso a parte riguarda i grandi anziani (ottuagenari o nonagenari), che in un quarto dei casi non hanno sufficiente informazione circa il funzionamento dell’ICD, gli aspetti etici e pratici della disattivazione56. In dettaglio solo il 13% ne ha discusso con il medico o i familiari, la maggior parte desidera la sostituzione anche se anziani o gravemente ammalati e un terzo desidera che l’ICD sia attivo anche se riceveranno uno shock.

Le discussioni e la disattivazione mostrano comunque un incremento nell’ultimo decennio, anche se la maggior parte dei pazienti muore con il dispositivo attivo24,57. D’altro canto vi sono report in cui la maggior parte degli intervistati riferisce di essere interessata non solo a discutere, ma anche ad approvare la decisione di disattivare l’ICD alla fine della vita52,54,58.

Di fronte a questo scenario complesso e comunque variabile ed in evoluzione, con una grossa quota di pazienti indisponibile a discutere di traiettorie di malattia, di decisioni di fine vita, compresa la disattivazione di un dispositivo salva-vita, come dobbiamo porci? Rispettare senza prevaricazione le scelte del malato, migliorare la nostra capacità comunicativa, con l’unico obiettivo di aumentare le conoscenze dei nostri pazienti e raggiungere una reale condivisione del programma di cura24,55.

Il parere dei medici e degli infermieri

A questo proposito non vi è dubbio che i medici non dispongano degli strumenti culturali e comunicativi per affrontare correttamente l’argomento nei colloqui con il malato e con i familiari6 e percepiscano negativamente anche solo la possibilità di poter disattivare un dispositivo impiantato59.

I documenti delle Società Scientifiche2,29 suggeriscono che la decisione di disattivare un ICD debba essere il risultato di un processo condiviso fra il medico curante, il paziente e la famiglia, come parte della discussione circa le possibili traiettorie di malattia, processo iniziato precocemente (preferibilmente al momento dell’impianto) e non alla fine della vita. Ciò in realtà succede raramente e in modo disomogeneo nelle differenti rilevazioni effettuate, con errata percezione degli aspetti etici e legali.

Il disagio vissuto dai medici nella discussione circa la disattivazione dell’ICD è intenso, in misura superiore rispetto alla sospensione di altri trattamenti di supporto vitale, quali la dialisi o la ventilazione meccanica: il 48% ritiene che la disattivazione di un ICD sia eticamente differente e il 20% che la decisione possa avere delle ripercussioni legali6. Peraltro, almeno nelle intenzioni, molti medici (56-83%) inizierebbero la discussione circa la disattivazione dell’ICD in casi di malattia in fase terminale, ma comunque meno di quanti sarebbero disponibili a discutere di direttive anticipate o di DNR (82-94%)60. In altre rilevazioni percentuali variabili dal 10% al 20% ritenevano non etica la disattivazione, analoga al suicidio assistito o all’eutanasia, e oltre il 40% la giudicava illegale61,62. In una survey condotta in 47 centri europei63, l’85% dei professionisti riferisce di avere discusso di disattivazione solo in casi specifici, mentre il 62% ritiene sia corretto discuterne con il paziente alla fine della vita. In uno studio più recente64 emergono comportamenti che meglio si adattano al problema: il 79% dei medici intervistati non si sente a disagio all’idea di discutere con il paziente della disattivazione e il 35% riferisce di farlo routinariamente. Maggiormente a disagio sono i medici più giovani, che in poco meno del 50% non si sentono a disagio e nel 16% ne discutono abitualmente con il paziente. Erroneamente il 21% degli intervistati ritiene equivalente il DNR order alla richiesta di disattivazione.

I palliativisti invece, sebbene largamente favorevoli alla disattivazione dell’ICD, segnalano una scarsa esperienza nell’iniziare la discussione, unitamente alla scarsa dimestichezza con protocolli specifici condivisi65.

Figure decisive, talora trascurate nelle decisioni di fine vita in pazienti con ICD, sono anche quelle che compongono il team infermieristico. Gli infermieri ritengono che l’informazione ricevuta dal paziente riguardo le direttive anticipate e la disattivazione dell’ICD siano insufficienti e pensano, diversamente da quanto ormai accettato in bioetica, che vi sia differenza tra non attivare un trattamento e sospenderlo, ritenendo che sia accettabile la disattivazione dell’ICD in pazienti terminali, dopo che tutte gli altri trattamenti sono stati sospesi. In ogni caso la disattivazione di ICD viene vissuta in maniera sofferta66.

La pratica varia attraverso i differenti Paesi, con medici e infermieri americani più propensi alla discussione circa la disattivazione, rispetto agli europei. In ogni caso le infermiere sono più riluttanti e si sentono meno sicure rispetto ai medici67.

Un dato generale comune emerge dalle indagini riportate in letteratura: la disattivazione di un dispositivo impiantato può avvenire “serenamente” solo se si tratta di un processo discusso per tempo con il paziente, in particolare nella fase pre-impianto, in modo consapevole e all’interno di un percorso globale che progressivamente affronti le tematiche relative alla prognosi e che consenta una completa pianificazione condivisa delle cure, comprensiva di direttive anticipate.

In conclusione:

1. i pazienti con ICD nella fase finale della vita ricevono frequentemente shock ripetuti, dolorosi e non in grado di modificare l’evoluzione della malattia di base;

2. i pazienti sono spesso riluttanti se non contrari a discutere di fine vita e delle decisioni conseguenti, in generale per la mancanza di informazioni complete circa l’efficacia dei dispositivi cardiaci impiantati e le problematiche connesse alla loro gestione. In particolare non ricevono informazioni adeguate nella fase pre-impianto e nel corso del follow-up. Sono maggiormente disponibili alla disattivazione soprattutto quando hanno ricevuto shock ripetuti e hanno una cattiva qualità di vita;

3. i medici sono impreparati a discutere di queste tematiche e una loro migliore capacità comunicativa può modificare profondamente il rapporto col paziente.

Il documento di consenso europeo2 fornisce alcune linee comportamentali:

1. la disattivazione di un ICD deve essere il punto finale di un processo trasparente e deliberato, con piena e documentata tracciabilità (anche per iscritto) della decisione da parte del paziente e del medico;

2. nel caso di invocazione della clausola di coscienza da parte del medico curante e/o del tecnico dell’industria produttrice il dispositivo, un altro medico o rappresentante dell’industria deve essere disponibile;

3. la possibilità di disattivare un ICD, in caso di peggioramento delle condizioni di salute, dovrebbe essere discussa con il paziente al momento dell’impianto e far parte integrante del consenso informato, nel quale inserire riferimenti e frasi specifiche riguardanti le situazioni in cui procedere alla disattivazione;

4. al paziente che abbia scelto di disattivare un ICD deve essere garantito che un eventuale ripensamento sarà accolto e il dispositivo riattivato;

5. nel caso di un ICD, è possibile disattivare solo lo shock, mantenendo le terapie antitachicardiche, che non determinano sintomi, ricordando però che talora possono accelerare la frequenza di una tachicardia ventricolare, provocandone la degenerazione in fibrillazione ventricolare;

6. in caso di emergenza aritmica, in assenza di un esperto elettrofisiologo, l’applicazione di un magnete sopra la tasca di alloggiamento dell’ICD consente di disattivare temporaneamente l’erogazione dello shock, mantenendo inalterate le altre funzioni di stimolazione elettrica.

Dispositivi di supporto meccanico al circolo

In pazienti affetti da SC avanzato altamente selezionati può essere presa in considerazione l’indicazione a sostituire il cuore nella sua funzione tramite il trapianto cardiaco. Tuttavia la scarsità di donatori rende estremamente difficile soddisfare tutte le richieste: in questi casi il progresso tecnologico ha consentito lo sviluppo e l’impiego clinico di VAD; in genere si tratta di apparecchi che supportano il solo ventricolo sinistro (LVAD), talora anche il ventricolo destro (RVAD). Inizialmente i VAD sono stati proposti come “ponte al trapianto” (bridge to transplant, BTT), in seguito anche come “terapia definitiva” (destination therapy, DT), nei pazienti non candidabili al trapianto.

I buoni risultati ottenuti in termini di miglioramento clinico e di sopravvivenza sono però controbilanciati dalla prevalenza ancora significativa delle complicanze, quali le infezioni, l’ictus, gli eventi embolici, la trombosi del dispositivo e lo SC destro nei portatori di LVAD (la popolazione di gran lunga più numerosa)68. Lo scompenso destro e le infezioni aumentano con un supporto prolungato nel tempo. Inoltre dopo impianto di LVAD la frequenza di riospedalizzazione è del 50% a 3 mesi e dell’80% a 1 anno68.

L’ultimo report annuale del database Intermacs statunitense fa riferimento agli impianti di LVAD dal 2006 al 201769: dei 25.145 adulti sottoposti a supporto meccanico al circolo, 18.539 (74%) hanno ricevuto un LVAD a flusso continuo e 667 (2,6%) associato a RVAD. Nel corso degli anni è aumentata la percentuale di pazienti con minore gravità di malattia (Intermacs 3 vs Intermacs 2), quella di pazienti con impianto DT, migliore funzione renale ed epatica. La durata media del supporto con LVAD è stata di 20 mesi. La sopravvivenza ad 1 anno è stata dell’83% e a 5 anni del 46%, senza differenze fra i diversi tipi di LVAD (pompa a flusso assiale o centrifuga). Nel caso di RVAD la mortalità ad 1 anno è stata del 58% e a 5 anni del 28%.

Le principali complicanze ad 1 anno sono state l’ictus (20% con pompe centrifughe e 13% con pompe a flusso continuo), sanguinamento gastroenterico fra il 20% e il 25% e infezioni fra il 25% e il 28% a seconda dei tipi di pompa impiegata. Le principali cause di morte sono state le complicanze neurologiche (19%) e l’insufficienza multiorgano (15%).

Il registro italiano ITAMACS ha fornito dati relativi al periodo 2010-2013, riferito a 289 pazienti70, mentre dati “ufficiosi” del Centro Nazionale Trapianti riferiscono 125 impianti (DT/BTT) nel 2018.

La gestione di questi pazienti è complessa, particolarmente riguardo alle fasi finali della vita, per le quali solo recentemente sono stati avviati programmi strutturati di pianificazione anticipata delle cure, di stesura di direttive anticipate e di definizione del ruolo delle cure palliative in tutte le fasi, a partire da quella pre-impianto71, nonostante le raccomandazioni della Joint Commission del 2013, fatte proprie da Medicare-Medicaid, che richiedevano l’inserimento nel team del programma LVAD un palliativista72. Analogo inserimento del palliativista nel team del programma LVAD, anche a seguito della pubblicazione dei requisiti da parte della Joint Commission, con valutazione pre-impianto è riferito da Salomon et al.73. Non risulta in Italia un requisito analogo pre-impianto né l’inserimento stabile del palliativi-sta nel programma LVAD.

Per il tasso significativo di complicanze i pazienti (o i loro fiduciari) possono ritenere che il VAD rappresenti più un nocumento che un beneficio e chiederne la disattivazione. Dunlay et al.74 hanno riportato, nella casistica della Mayo Clinic relativa a 89 pazienti deceduti con LVAD, che il dispositivo era disattivato nel 60,5% dei pazienti prima della morte. Nella stragrande maggioranza dei casi (85,7%) la richiesta della disattivazione era avanzata dalla famiglia, perché il paziente non era consapevole. L’89,4% dei pazienti moriva entro 1 h dalla disattivazione del LVAD e la sopravvivenza massima era di 26 h. Nel 66,5% era stato disattivato anche un ICD e in quasi il 90% dei casi la morte era avvenuta in terapia intensiva. In meno della metà dei casi era stata avviata una consulenza palliativa nel mese precedente la morte e solo il 13% era stato arruolato in un programma di hospice.

In un’altra casistica più recente di 62 pazienti con LVAD deceduti con dispositivo disattivato, solo una minoranza (14 pazienti) aveva condiviso la scelta, mentre gli altri pazienti non erano in condizioni cliniche tali da poter esprimere un giudizio. Anche in questo caso l’84% è morto in terapia intensiva, più frequentemente se il paziente non era consapevole. Nel primo gruppo erano più frequenti i consulti palliativi pre-mortem, minore la degenza in terapia intensiva75.

Lo stesso gruppo della Columbia University non ha rilevato differenze cliniche fra pazienti deceduti con LVAD come BTT o DT, salvo la più giovane età e la maggiore percentuale di morte avvenuta in terapia intensiva nel gruppo BTT. Il dispositivo era disattivato nel 37% nel gruppo DT e nel 43,3% in quello BTT. Un consulto palliativo, dal 2016 routinario prima dell’impianto, era stato avviato in circa il 50% dei soggetti76.

I recenti dati ricavati dal Registro INTERMACS, su quasi 5000 pazienti portatori di LVAD a flusso continuo deceduti, confermano che la maggior parte dei malati muore in ospedale (in media il 77%), con tassi in moderata riduzione allontanandosi dall’impianto (>1 anno il 37%). Anche in questa casistica la causa principale di morte nel primo mese dopo l’impianto è l’insufficienza multiorgano e nei periodi successivi l’ictus: fra le prime tre cause vi è anche la morte successiva alla disattivazione del LVAD77.

Un aspetto che emerge dai numerosi studi citati è l’insufficiente informazione che il paziente e i familiari ricevono prima dell’impianto, in relazione alla successiva traiettoria di malattia, alla qualità di vita e alle scelte finali77.

Esiste un consenso etico30,31,78 e giuridico37 sul fatto che un paziente consapevole (o il suo fiduciario) possa chiedere l’interruzione dei trattamenti sanitari, qualora siano divenuti inefficaci o li giudichi più peggiorativi che migliorativi della qualità di vita. La disattivazione di un VAD può suscitare perplessità perché il VAD costituisce un trattamento continuativo a lungo termine, svolge una funzione essenziale che l’organismo non riesce più a svolgere autonomamente e perché alla disattivazione segue inevitabilmente la morte del paziente (spesso nel giro di minuti).

In accordo con le riflessioni etiche di Sulmasy30,31 il VAD può essere considerato una terapia sostitutiva (figura 1): la sua disattivazione è eticamente accettabile e non paragonabile al suicidio assistito e all’eutanasia, giacché, come ricordato a proposito degli ICD, la causa di morte non è una nuova patologia, ma è conseguenza naturale della malattia di base. La morte che segue la disattivazione del VAD è causalmente associata allo SC e l’atto di spegnere il VAD elimina un impedimento al decorso naturale della malattia di base.

È opportuno che, in concomitanza con la disattivazione del VAD, sia interrotta un’eventuale ventilazione meccanica invasiva e disattivato l’ICD (di cui la quasi totalità di questi pazienti è portatrice). I sintomi che si verificano dopo la disattivazione del VAD sono analoghi a quelli che seguono la sospensione della ventilazione meccanica: dispnea, ansia, agitazione e rantolo terminale per accumulo di secrezioni. Questi sintomi possono essere controllati con l’associazione di oppioidi e benzodiazepine; il rantolo terminale con farmaci anticolinergici, con il cambiamento di posizione e con la riduzione dell’apporto di liquidi, mentre va scoraggiata la broncoaspirazione. È importante notare che quando il VAD viene disattivato, il tempo di circolo si allunga notevolmente, così come il tempo di raggiungimento della massima efficacia dei farmaci. È quindi opportuno effettuare un bolo di oppioidi e benzodiazepine immediatamente prima dello spegnimento del dispositivo. Infine, è fondamentale non dimenticare di disattivare gli allarmi quando si spegne il VAD (la procedura varia con i modelli ed è quindi opportuno verificarla, in anticipo, di volta in volta) per evitare che il destabilizzante suono degli allarmi disturbi quello che si auspica essere un momento di intimità e di pace per il paziente e i familiari.

La fine della vita di questi pazienti è complicata anche per i caregiver, figure chiave in tutto il percorso di questi malati. Un recente studio americano ha indagato proprio l’esperienza dei caregiver riguardo al termine della vita79. Sono emersi tre temi principali, che hanno come base comune una sensazione di confusione, riguardante il processo del morire con un LVAD (per inadeguatezza delle informazioni ricevute da parte del VAD team), gli aspetti etici e legali che sorgono nella cura di un paziente con LVAD che si sta avvicinando alla morte e confusione nei passaggi di integrazione di un programma di cure palliative e di hospice, sottoutilizzato in questa popolazione di malati79.

Per quanto riguarda le cure palliative, i caregiver hanno lamentato, oltre al non insolito senso di abbandono da parte delle figure sanitarie che fino ad allora erano state il loro riferimento, anche grande preoccupazione per la percepita scarsa conoscenza dei VAD da parte del team delle cure palliative. Problema che costituisce un ostacolo quasi insormontabile per i portatori di VAD alla conclusione della propria vita in un contesto diverso dall’ospedale.

Conclusioni

In conclusione dovrebbe essere standardizzato un approccio che consideri l’intervento palliativo dalla fase pre-impianto e durante tutto il percorso di malattia, migliorando la qualità di vita e aumentando il ricorso alla pianificazione anticipata e condivisa delle cure71. Infine, anche nel caso della disattivazione del LVAD i cardiologi si sentono impreparati ad affrontare il problema sul piano emotivo ed etico, in assenza di un percorso formativo strutturato7. Alcuni di essi ritengono che la disattivazione equivalga a eutanasia o suicidio assistito e più spesso che il malato dovrebbe morire per altre comorbilità e non a seguito della disattivazione, indipendentemente dalla volontà del paziente80.

Sono suggeriti alcuni passaggi per una corretta decisione in merito81:

1. valutare la capacità decisionale del paziente, escludendo delirium o depressione, con eventuale consulto psichiatrico;

2. coinvolgere il fiduciario;

3. discutere con il paziente o il fiduciario la concordanza della decisione circa la disattivazione con i desideri, gli obiettivi di cura e le speranze del malato;

4. coinvolgere nelle decisioni i palliativisti, con training specifico sulle tematiche della disattivazione;

5. considerare un consulto bioetico in mancanza di chiare decisioni condivise.

Anche in questo caso, comunque, i principi di autonomia, di condivisione delle scelte, del migliore interesse per il paziente, l’individuazione di un fiduciario dovrebbero entrare a far parte del bagaglio professionale del cardiologo che si occupa di insufficienza cardiaca e dei cardiochirurghi che impiantano VAD.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

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