Autodeterminazione. Un punto di vista filosofico

MATTEO GALLETTI

Dipartimento di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Firenze

Pervenuto il 29 agosto 2022. Accettato il 23 novembre 2022.

Riassunto. Tradizionalmente, l’autodeterminazione è definita come autonomia e indipendenza da influenze esterne e collegata, sul piano normativo, al diritto di non subire interferenze nella sfera intangibile e privata delle scelte personali. Sebbene abbiamo buone ragioni per rifiutare l’idea di sovranità su di sé intesa in senso atomistico, non occorre rinunciare completamente a essa, ma riconoscerne la collocazione sullo sfondo della rete di relazioni in cui gli individui sono immersi.

Parole chiave. Autodeterminazione, connessione, libertà, interessi.

Self-determination. A Philosophical Point of View

Summary. Traditionally, self-determination is defined as autonomy and independence from external influences and linked, on a normative level, to the right not to be interfered with in the intangible and private sphere of personal choices. Although we have good reason to reject the idea of self-sovereignty understood in an atomistic sense, we do not have to renounce it completely, but rather recognize its place against the network of relationships in which individuals are immersed.

Key words. Self-determination, connection, freedom, interests.

Prima di entrare nel merito dell’argomento del titolo, mi preme fare una precisazione. Ho intenzionalmente mutato il sottotitolo originale “Il punto di vista della filosofia”, a mio giudizio un’espressione fuorviante, in “Un punto di vista filosofico”. La formula originale, infatti, comunica l’idea che esista un punto di vista comune a chiunque “faccia filosofia” che è portato, per così dire, a vedere, riconoscere e condividere da quella prospettiva un unico panorama. Come se assumere il punto di vista della filosofia significasse adottare un metodo ben preciso e quindi considerare e analizzare i problemi con strumenti univoci, che tutti i filosofi, di fatto, utilizzano e maneggiano. Credo che si possa dubitare di un quadro così omogeneo, compatto, adamantino. Si può sempre, ovviamente, qualificare come “critico” il punto di vista della filosofia e sostenere che perlomeno questo tratto appartiene a tutta la popolazione dei filosofi. Ma anche se si riesce a dare un unico senso al termine “critico”, è innegabile che permangano all’interno della filosofia punti di vista diversi, da cui si scorgono problemi e urgenze diversi e quindi si danno risposte diverse. Ciò non significa escludere che possano esistere solidi criteri (filosofici) per distinguere punti di vista legittimi e illegittimi (o validi e non validi oppure, se si preferisce, veri e falsi) e metodi buoni e cattivi, ma raggiungere convergenze di questo tipo è un lavoro che richiede anch’esso tempo e fatica.

Queste premesse, sotto forma di captatio benevolentiae, mi servono per chiarire che le riflessioni qui presentate non rispecchiano il punto di vista della filosofia sul tema in oggetto, ma un punto di vista filosofico, quello che ritengo più adeguato a cogliere alcuni aspetti importanti dell’autodeterminazione.

L’autodeterminazione, per la sua natura riflessiva, è spesso associata a un’ossessione per il sé. Soprattutto nell’ambito delle grandi questioni bioetiche di inizio e fine vita, l’esercizio dell’autodeterminazione equivale per alcuni a una decisione che riguarda se stessi, la cui responsabilità ricade interamente sulle spalle della persona che decide e quindi è sinonimo di solitudine, come se l’individuo avesse quasi l’obbligo di “scegliere da sé”. L’autodeterminazione è quindi percepita prima di tutto come autonomia e indipendenza da influenze esterne, con il conseguente diritto, sul piano normativo, a non subire interferenze nella sfera intangibile e privata delle scelte personali. Quello che vorrei sostenere è che questa idea di autodeterminazione come isolamento è una visione ormai superata e in letteratura (come anche nella prassi) se ne sono dimostrati ampiamente i limiti. Ma il riconoscimento dei suoi difetti non cancella il bisogno di dare sostanza filosofica alla tutela sul piano morale della libertà e della responsabilità degli individui nelle decisioni che riguardano la propria vita e la propria salute. Dare sostanza significa riconoscere che quelle decisioni personali, sulla propria morte, sulla propria salute, sulla propria vita riproduttiva, si collocano necessariamente in una rete di relazioni in cui l’individuo è immerso. Questa rete, lungi dal costituire necessariamente un intralcio alla libera e responsabile decisione, è anzi lo sfondo imprescindibile per cui tale decisione può realizzarsi.

Autodeterminazione e sovranità su di sé

Semplificando molto una tradizione di riflessione assai complessa e articolata, si può sostenere che, nell’ambito dell’etica contemporanea, convivono due concezioni di “autodeterminazione”. La prima è quella kantiana, per cui l’autonomia indica il potere della ragione di darsi una legge morale senza condizionamenti empirici (inclinazioni, desideri, ecc.). La seconda, che risulta forse largamente maggioritaria nell’ambito bioetico, identifica l’autodeterminazione con quanto JS Mill ha scritto nel suo Saggio sulla libertà nel 1859. In uno dei brani più famosi di quest’opera, Mill scrive: “Scopo di questo saggio è formulare un principio molto semplice, che determini in assoluto i rapporti di coartazione e controllo tra società e individuo […]. Il principio è che […] il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell’individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice, perché, nell’opinione altrui, è opportuno o perfino giusto: questi sono buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non per costringerlo o per punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente. […] Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l ‘individuo è sovrano” (pag. 12-13)1

Mill quindi delimita uno spazio privato su cui l’individuo deve essere lasciato libero di decidere e quindi di esercitare la propria sovranità. La mente e il corpo, la salute e la malattia, la vita e la morte di ciascuna persona, concretamente determinata, costituiscono un perimetro inviolabile; ogni interferenza è lecita solo dopo l’autorizzazione dell’individuo interessato e ogni atto di limitazione della libertà è giustificato quando l’esercizio di questa libertà violi interessi e diritti legittimi di altre persone. L’identificazione tra autodeterminazione e sovranità suggerisce che per Mill essere socialmente e politicamente liberi coincide con un ideale morale di governo della propria persona. Per Mill questa forma di libertà/sovranità è fortemente connessa con i valori, gli interessi e le preferenze che caratterizzano il proprio sé. Infatti, autogovernarsi significa prima di tutto cercare una propria via verso lo sviluppo del sé e la fioritura del proprio benessere. Per utilizzare una terminologia diversa, si può sostenere che la possibilità di auto-determinarsi assume un ruolo importante in quanto condizione essenziale della costruzione dell’identità personale, intesa come definizione, più o meno compiuta, dell’insieme di valori, d’impegni, di credenze, con cui l’individuo si identifica. 

Come è stato giustamente osservato, nel suo brano Mill non intende sostenere che la sovranità personale implica la proprietà dei beni su cui essa esercita il proprio dominio. Autodeterminarsi rispetto a scelte che riguardano il proprio corpo e la propria vita non significa necessariamente instaurare con il corpo e la vita una relazione di disponibilità e proprietà basate su capricci o atteggiamenti di tracotanza. Significa invece agire in modo responsabile secondo ragioni a cui aderiamo (perché coerenti con il nostro sé) e che gli altri possono accettare2. Lo spazio privato, insomma, non è un territorio selvaggio in cui l’arbitrio capriccioso può cavalcare senza freni e vincoli, ma è terreno fertile su cui coltivare la libertà responsabile come costruzione ed espressione di sé stessi, del proprio carattere e dei propri interessi critici. 

Governare la propria salute e la propria vita è un modo per modellare la propria esistenza secondo quel complesso di impegni e identificazioni che disegna il proprio “piano di vita” e che dà significato e spessore al nostro stare nel mondo. Si può qui ricordare l’importante distinzione, che si deve a Ronald Dworkin, tra gli interessi di esperienza (o “volizionali”), preferenze e gusti personali la cui soddisfazione rende una vita più piacevole per chi la vive, e gli interessi “critici”, che concorrono a definire ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Mentre frustrare i primi non intacca il valore della vita, rispettare o non rispettare i secondi significa votare al successo o al fallimento i piani di vita e l’identità stessa della persona e può rendere la vita meno degna di essere vissuta secondo il punto di vista personale del soggetto stesso di quell’esistenza3.

Si potrebbe obiettare che il collegamento tra autodeterminazione e costruzione dell’identità è esagerato. Poche persone riescono a impostare la propria vita secondo interessi critici concepiti in un senso così olistico ed espressi in modo così cristallino. Non occorre però idealizzare il concetto di “pianificazione”. In primo luogo, la persona non deve esplicitare l’ideale di vita buona o compiere un processo cosciente di auto-riflessione razionale per definire la propria identità: anche autogovernarsi in un numero limitato di settori della propria esistenza (anche un solo settore), secondo convinzioni anche non articolate e non completamente sottoposte alla riflessione razionale, può essere un esempio di espressione di un interesse critico. Il processo attraverso cui ci sforziamo di diventare la persona che si vuole essere è un processo di auto-creazione, che non deve necessariamente seguire linee unitarie e un’organizzazione netta. Come ha ricordato Jonathan Glover: “L’idea di auto-creazione ha bisogno di essere svincolata da alcune esagerazioni. […] Avere un progetto di auto-creazione non deve implicare avere un ‘piano di vita’, cioè un progetto unitario di come si suppone che la nostra vita debba svolgersi. Poche persone hanno piani di questo tipo. Ma probabilmente, per la maggior parte di noi, l’auto-creazione consta di un insieme piuttosto disorganizzato di fini più limitati: assomiglia più alla costruzione di una città medievale che alla pianificazione di una città-giardino”.

Insomma, l’idea di autodeterminazione non corrisponde necessariamente a quella di “capriccio”, né coincide con l’alimentazione di forme di “anarchismo etico” soggettivistico o con propositi di coltivare atteggiamenti relativistici o indifferenti ai valori morali. Auto-determinarsi significa auto-governarsi in modo responsabile, secondo un complesso di valori, interessi, preferenze che non è il patrimonio di un soggetto chiuso, ma è aperto al confronto e alla relazione.

Il sé e gli altri: connessioni

Si può quindi intravedere il ruolo rilevante che gioca questa apertura. Anche in Mill, in fondo c’è il riconoscimento di questa apertura, perché la libertà personale trova un limite stabilito dalle conseguenze che le azioni hanno sulle altre persone. Vivere in società rende necessario stabilire obblighi reciproci, capaci di vincolare le possibilità di azione nell’interesse di tutti. In primo luogo, si può legittimamente interferire con le azioni che danneggiano gli interessi reciproci riconosciuti come diritti dalla legge o dal tacito accordo; in secondo luogo, ciascun cittadino deve essere pronto a sostenere «fatiche e sacrifici» che sono necessari per tutelare la società e i suoi membri (pag. 86)1

L’autodeterminazione, quindi, deve essere pensata sullo sfondo di molteplici connessioni tra gli individui, una rete di relazioni che caratterizzano la vita e le attività quotidiane. Una precisione è però d’obbligo: il riconoscimento della connessione non ha soltanto un valore “negativo” o di limite a quel che possiamo scegliere e fare, come sembra emergere dalla prospettiva di Mill. È sicuramente un merito di molta letteratura contemporanea nell’ambito dell’etica femminista e della cura avere individuato un senso “positivo” di connessione in almeno due direzioni.

In primo luogo, la connessione caratterizza i modi in cui sviluppiamo le strutture soggettive che permettono di scegliere e autodeterminarsi. Il processo attraverso cui maturiamo un punto di vista sul mondo e acquisiamo anche quelle capacità cognitive, emotive e corporee di esprimerlo nel corso della vita è un processo essenzialmente relazionale. L’introduzione e lo sviluppo del concetto di autonomia relazionale ha infatti rappresentato un tentativo proficuo di rinnovare la riflessione sulla libertà personale5. Esistono modi diversi di intendere il concetto di autonomia relazionale ma si può dire che fa riferimento all’idea che la capacità di autodeterminazione è “incorporata” (embedded) in reti relazionali, ossia dipende in senso causale o costitutivo dalle relazioni che il soggetto intrattiene con altre persone e con l’ambiente che lo circonda6. Tali reti relazionali compongono lo sfondo su cui è possibile acquisire capacità e abilità che consentono poi di essere autonomi.

Si può allora parlare di “autodeterminazione relazionale” per indicare quella prospettiva che ritiene prioritaria, sul piano morale, la capacità individuale di autodeterminarsi, e quindi le scelte che una persona può fare autonomamente sulla propria vita, morte e salute, ma riconosce che lo spazio formale garantito da diritti e norme può riempirsi di contenuti significativi per le persone che siamo grazie alle relazioni: siamo infatti persone situate in una rete relazionale, dotati delle risorse sentimentali per preoccuparsi della sofferenza e della vulnerabilità altrui, capaci di pensare possibilità di vita che si traducono in atteggiamenti di cura significativi. Per riconoscere pienamente questo aspetto, occorre quindi partire dalla nostra natura di esseri incarnati e situati, la cui collocazione nel mondo è la funzione di due termini di riferimento. Da una parte, occupiamo idealmente uno spazio perché percorriamo possibilità di vita, abbiamo cure che ci definiscono e ci individuano e sono sorgenti di significatività per noi e per la vita che conduciamo; dall’altra parte siamo anche immersi in una rete relazionale che ci unisce ad altre persone. Entro questa ampia rete si possono chiaramente discriminare relazioni diverse: vi sono relazioni personali che ci uniscono a parenti, amici, persone con cui intratteniamo rapporti specifici e privati.

In secondo luogo, la connessione implica una connotazione positiva degli obblighi reciproci. L’astensione da comportamenti che danneggiano gli altri non esaurisce la sfera della responsabilità personale, ma non è sufficiente nemmeno l’idea generale di obbligo positivo a contribuire a un sistema che tutela i suoi membri (e in particolar modo quelli più vulnerabili). La connessione, infatti, non è generica ma concreta e si sostanzia nell’interdipendenza reciproca. La rete che ci unisce tutte e tutti è una risorsa che permette a ciascuno di sviluppare le capacità e abilità, accumulare risorse emotive, motivazionali e cognitive, costruire la propria identità e i propri progetti di vita. L’idea di connessione come interdipendenza implica che la possibilità di trovare la propria via dipende essenzialmente dalla cura altrui, così come la possibilità di prosperare degli altri dipende dalla nostra. Essa, quindi, indica che la responsabilità personale consiste principalmente nella disponibilità e nell’impegno a partecipare, sostenere e promuovere relazioni e atteggiamenti di responsività verso i bisogni dell’altro, nella consapevolezza della natura interdipendente degli esseri umani e della vulnerabilità che caratterizza la vita propria e altrui7. Si sostanzia nel riconoscimento della particolarità delle biografie e delle storie particolari e della dipendenza di questa peculiarità da variabili contestuali, sociali, strutturali. 

Questa prospettiva particolaristica deriva in parte dal fatto che gli esseri umani crescono e si formano in contesti intersoggettivi, relazionali e affettivi, e in parte dal fatto che siamo potenzialmente ricettivi verso la sofferenza altrui. Viviamo in contesti in cui l’ordinarietà è costituita da una costante di vulnerabilità, di dipendenza, di autonomia imperfetta8,9.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Mill JS. Saggio sulla libertà, Milano: Il Saggiatore 1999: 12-13.

2. Lecaldano E. La sovranità sul proprio corpo come fondamento per le direttive anticipate. In: Neri D (a cura di). Autodeterminazione e testamento biologico. Firenze: Le Lettere, 2010.

3. Dworkin R. Sovereign virtue: the theory and practice of equality. Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 2000: 242-5.

4. Glover JI: The philosophy and psychology of personal identity. Harmondsworth: Penguin Books, 1988.

5. Mackenzie C. Feminist Innovation in Philosophy: Relational Autonomy and Social Justice. Women’s Studies International Forum 2019; 72: 144-51.

6. Gómez-Vírseda C, de Maeseneer Y, Gastmans C. Relational Autonomy: what does it mean and how is it used in end-of-life care? A systematic review of argument-based ethics literature. BMC Med Ethics 2019; 20: 76.

7. Botti C. Cura e differenza. Ripensare l’etica. Milano: LED, 2018.

8. Mackenzie C, Rogers W, Dodds S, eds. Vulnerability. New essays in ethics and feminist philosophy. Oxford: Oxford University Press, 2013.

9. Laugier S. Attention to ordinary others: care, vulnerability, and human security. Iride 2013; 26: 507-26.