Puer Aeternus: una ricognizione sull’infanzia nella storia
e nell’antropologia

GIORGIO DI MOLA

Medico intensivista, anestesista-rianimatore, Socio fondatore SICP.

Pervenuto e accettato il 28 aprile 2022.

Riassunto. L’impostazione storiografica e antropologica date dagli studiosi alla vita del bambino, dalla sua nascita all’adolescenza, appaiono come prive di quella naturale predisposizione all’empatia per forme di vita segnate da un’intrinseca inferiorità fisica e dalla passività verso aggressioni e ostacoli dell’esistenza. A parte alcune eccezioni la vita del bambino è inquadrata in una tassonomia, molto simile alla classificazione di altre specie di esseri viventi, o analizzata per trarne una pedagogia del comportamento dell’adulto nel confronto col mondo dei piccoli. La rassegna di tali comportamenti configura uno scenario di abusi e soprusi, che vede la fine e nuove positive prospettive solo alla fine del XX secolo.

Parole chiave. Bambini, infanzia, storia, antropologia.

Puer Aeternus a survey of childhood in history and anthropology

Summary. The historiographical and anthropological approach given by researchers to the life of the child, from his birth to adolescence, appear to lack that natural predisposition to empathy for forms of life marked by an intrinsic physical inferiority and by the passivity towards aggression and obstacles of the existence. With some exceptions, the life of the child is framed in a taxonomy, very similar to the classification of other species of living beings, or analysed to derive a pedagogy of adult behaviour in comparison with the world of children. The review of such behaviours sets up a scenario of abuse, which sees the end and new positive prospects only at the end of the twentieth century.

Key word. Child, childhood, history, anthropology.

Una ricognizione della letteratura sul bambino/a lascia perplessi sull’atteggiamento degli adulti, - dato che ricercatori e studiosi non possono che essere adulti – e la relativa scarsità di argomenti che riguardino un’autentica analisi antropologica del mondo dell’infanzia. Il tema tende sempre a essere come contaminato da una sorta di “pudore”, che si può leggere più banalmente come minor interesse o una sorta di rimozione, per la parte di vita che tutti noi abbiamo trascorso e di cui poco o nulla ricordiamo. A meno che la nostra infanzia non sia stata segnata da qualche fatto molto particolare, traumatizzante, per i rapporti famigliari o esterni alla famiglia, per una condizione di malattia o episodi che hanno tragicamente mutato il corso della vita quotidiana: una guerra, un evento drammatico naturale, un fatto di sangue.

Deriva da ciò l’impressione di un’atmosfera nella quale si respira un vago senso di colpa, che confligge con il complesso di superiorità, “naturale” per così dire, relativo al rapporto “naturale” tra un essere più forte e quello più debole.

In definitiva – è un’introduzione, ma potrebbe anche essere la conclusione – ciò che emerge da un’analisi anche superficiale degli studi sui bambini, come esseri biologici, e sull’infanzia come temporalità che precede l’adolescenza, è la tensione esplicita o inconscia verso una pedagogia dei bambini e delle bambine, più che un’aperta introspezione di stampo antropologico.

D’altronde la maturazione dell’antropologia, che crede sempre di meno all’utilità di un metodo “comparativo”, cedendo spesso a una visione moraleggiante, comparando il buon uomo primitivo, il selvaggio, alle cattive abitudini e atteggiamenti dell’uomo civilizzato, guarda oggi al bambino in un’accezione più “specialistica”, nell’ottica di una etno-psicologia utilizzabile ai fini di un’analisi e un’eventuale terapia di comportamenti anomali nell’età infantile.

Ciò non toglie che in letteratura si trovino buone cronache etnografiche e una discreta storiografia sul mondo dei bambini nelle varie epoche, utilizzabili ai fini di una ricognizione sui costumi e i comportamenti dell’infanzia, da cui dedurre – anche in modo non specialistico – quale è stata l’evoluzione di questo mondo in una società, quella occidentale, dove l’infanzia è sempre in stretto rapporto e dipendente dall’universo adulto.

L’infanzia è stata piuttosto inosservata dagli storici, occupati dalla “storia seria”, dalle battaglie e disinteressati alla quotidianità dell’uomo comune.

Esiste tuttavia una visone differente, non trascurabile, come nell’opera di Philippe Ariès “L’enfant et la vie familiale sous l’Ancien Régime”1.

La monografia di Philippe Ariès è la prima ricerca moderna grazie alla quale si forma la nozione di “storia dell’infanzia”. È il risultato di dieci anni di ricerca, continuazione dell’enorme impegno di Ariès in ambito storiografico, e uno dei capolavori della scienza storica.

In questi studi si fa notare innanzitutto come nella “vecchia società tradizionale” la durata dell’infanzia sia limitata al periodo in cui il bambino non può ancora camminare senza assistenza. Molto presto però, appena rafforzato fisicamente, il bambino è mescolato con gli adulti, condividendo con loro il lavoro ed i giochi. In questa società la famiglia non crea, né controlla la trasmissione dei valori, la conoscenza e la socializzazione del bambino. È alla fine del XVII secolo, che si avvertono cambiamenti negli atteggiamenti degli adulti verso l’infanzia ed il bambino associati con lo sviluppo della scuola, che sostituisce l’apprendimento dall’esperienza nella vita.

Accanto a questa analisi compiuta con il metodo storiografico classico, sono nate osservazioni sull’evoluzione dell’Infanzia “psicostoriche”, come le ha definite Lloyd deMause che ne ha introdotto il metodo. Gli psicostorici si sono posti domande del tipo: come le generazioni genitori e bambini possano creare tra di loro ciò che in futuro si giocherà sulla scena della vita pubblica.

In questo senso Lloyd deMause considera “The Evolution of Childhood” il primo studio serio sulla storia dell’infanzia in Occidente.2

Nelle sue opere deMause, un po’ come nella storia di Ariès, elenca e descrive sei modelli dominanti di trattamento dei bambini nel corso delle diverse epoche storiche:

l’infanticidio (dall’Antichità al secolo IV d.C.), caratterizzato da omicidi di massa di bambini e dalla violenza nei loro confronti;

l’abbandono (dal IV al XIII secolo d.C.), caratterizzato dal rifiuto dell’infanticidio, in seguito della diffusione del cristianesimo ed alla pratica di affidare i figli ad altre persone;

l’ambivalenza (dal XIV al XVII sec.), caratterizzata da una progressiva limitazione della pratica della punizione fisica;

l’intrusione (secolo XVIII), caratterizzata da una maggiore comprensione delle esigenze dei bambini;

la socializzazione (dall’inizio del secolo XIX - alla prima metà del secolo XX), caratterizzata da una sempre maggiore diffusione delle conoscenze pedagogiche e dall’accesso all’istruzione primaria e secondaria

l’aiuto (dalla seconda metà del secolo XX), caratterizzato dall’individualizzazione del processo dell’istruzione, dalla negazione della punizione fisica e delle pari relazioni tra genitori e figli.

Già da questo elenco si potrebbe dedurre che se nell’accezione più comune, parlando di “umanità”, si intende quel sentimento positivo che contiene la radice etimologica di “Homo” e non quella di “Domina”, chi prova a vagare sui sentieri poco esplorati della storia dell’infanzia non può fare a meno di provare un senso di ripulsa per le prevaricazioni e l’arbitrio giocato dalla parte maschile nell’evoluzione dell’infanzia, privando l’“umanità” del sinonimo di “buon cuore”.

Non a caso la scrittrice Virginia Woolf affermava che se “La macchina delle uccisioni ha un sesso, è quello maschile...”. Sarà perché l’uomo ha da sempre, tradizionalmente rifiutato o non ha ritenuto appropriato quel compito di “maternage”, che lo stesso termine affida al sesso femminile3?

Sta di fatto che per migliaia di anni quella di bambino è stata tra le categorie più oppresse della comunità umana. Il periodo dell’infanzia è stato considerato poco importante, ritenendo il passaggio all’età adulta qualcosa che doveva avvenire il più rapidamente possibile, per entrare “produttivamente” nella collettività.

Una storiella ebraica che riporta lo scrittore e analista junghiano James Hillman, racconta di un bambino, a cui il padre chiede di salire un gradino, e poi un altro e poi un altro ancora. Ogni volta il padre lo invita a saltare dal gradino più alto nelle sue braccia e ogni volta lo prende per evitargli una fatale caduta. Ma al quinto gradino lo lascia cadere e il bimbo, contuso e sanguinante, sente il padre ammonirlo: “Mai fidarti di un Ebreo, neanche se è tuo padre !”4.

Al di là del suo larvato antisemitismo, avvisa l’autore di “Puer Aeternus”, questa storiella ci deve far chiedere cosa significa essere traditi dal proprio padre o da una persona vicina.

Nella cosmologia primitiva l’infanzia si reputava, nel modello metaforico, “attraccata”, - come una imbarcazione alla banchina - all’anima dell’adulto, con tutte le conseguenze negative e solo in piccola parte positive che ciò poteva comportare. Da un lato il peso della responsabilità, relativa alla condizione di naturale inferiorità del bambino, dall’altra la sensazione di doversene liberare al più presto per vederlo, adulto, nella condizione di poter badare in autonomia a sé stesso e concorrere al benessere della comunità di appartenenza.

Questo atteggiamento mentale non ricalca tuttavia una realtà ben più tragica, né lascia spazio all’immaginazione di tutta la violenza e le forme di annichilimento, di cui il bambino è stato oggetto da tempi remoti, come testimoniato già nella Bibbia - libro dell’Esodo - dove troviamo il crudele dettato divino a Mosè : “Consacrami ogni primogenito...”, che costringe il patriarca a sollevare il coltello sul figlio prediletto Isacco. Episodio nel quale la fiducia del padre, ripropone il tema del tradimento degli adulti nel confronto dei bambini.

Passeranno secoli prima che il neonato, poi bambino, acquisti lo stato giuridico di persona, con tutto quello che dal lato legale, sociosanitario, etico comporta per l’inserimento sociale del minore.

È un cammino segnato da “esposizioni”, “ruote”, “infanticidi”, tratte dei piccoli esseri umani e abusi di ogni genere.

Nell’antichità abbandonare figli indesiderati era un uso alquanto diffuso presso diverse popolazioni. Gli ebrei vietavano l’uccisione ma permettevano l’abbandono e la vendita degli illegittimi. In Grecia si considerava legale l’infanticidio e l’abbandono e nell’antica Roma, il padre che non riconosceva il figlio sollevandolo verso il cielo (da cui : “allevare”) poteva portarlo alla columna lactaria esponendolo più al destino di morire di fame o essere fatto schiavo che al buon cuore di chi passava5. Anche Platone era favorevole all’infanticidio in caso di gravi malformazioni e affermava che “i figli di nessuno” non avrebbero potuto far parte della sua Repubblica ideale.

Nemmeno Aristotele sfuggì alla mentalità dell’epoca: secondo il filosofo doveva esserci una Legge che non permettesse di allevare i figli deformi, e un limite alla procreazione, rispetto al numero di nascite, dove gli “usi e costumi” avessero impedito il loro abbandono.

Solo nel 315 d.c. l’Imperatore Costantino stabilisce che una parte delle tasse vada per i bambini abbandonati e i figli degli indigenti. Negli stessi anni vigeva un codice che prevedeva la pena di morte per l’infanticidio ma non puniva chi vendeva i figli. Soltanto nel VI Secolo, con l’avvento di Giustiniano, viene sanzionato l’abbandono considerandolo come infanticidio.

Con l’avvento del cristianesimo si impose il principio della sacralità della vita umana, confermata dal rito battesimale. La sollecitudine della Chiesa nei confronti dei bambini abbandonati fu dettata non solo dalla preoccupazione per la loro sopravvivenza e la loro salute fisica, ma anche dal timore che essi morissero senza essere stati battezzati. Questa preoccupazione fu un incentivo alla ricerca di rimedi per il recupero dei bambini esposti: i bambini non sarebbero più stati “appesi alle piante” o abbandonati sul ciglio delle strade o alla Colonna lattaria, ma “deposti” sui sagrati delle chiese prima e alla “ruota degli esposti” più tardi, anche se - gli storici ricordano - le acque del Tevere erano sempre pronte ad accoglierne un certo numero.

Nella prima metà del VI secolo venne in uso un’altra forma di “abbandono” dei neonati: l’oblazione. L’oblazione, già nella Regola di S. Benedetto, era l’offerta di un bambino a un monastero come dono permanente e aveva un duplice aspetto: quello sociale, con gli stessi fini dell’abbandono - di regolazione demografica o ereditaria - e quello religioso, con fini devozionali, per le ricompense spirituali che avrebbero atteso i genitori degli oblati.
Nell’Alto Medioevo S. Basilio prescriveva che i bambini non fossero impegnati, “professi”, nella vita religiosa prima di avere raggiunto l’età in cui potevano prendere decisioni autonome, ma altri prelati tuttavia obbligavano alla irreversibilità della condizione di oblato. Non ci fu mai da parte della Chiesa una esplicita condanna dell’abbandono, neppure da parte di uno dei padri della Chiesa come S. Tommaso. Fu più nella società medievale, dove la preoccupazione per la salvezza dell’anima era prevalente su quella del corpo, che comparve un certo impegno nel recupero dei bambini abbandonati, motivato appunto da preoccupazioni di ordine spirituale, nell’osservanza dei principi evangelici della pietas e della caritas.

Diverso era l’atteggiamento verso i neonati deformi o la cattiva salute del bambino.

Si era convinti che questi bambini fossero stati concepiti durante il ciclo mestruale, o da una donna che stava allattando o nel periodo quaresimale, che erano comportamenti vietati dalla morale comune. Nei parti gemellari poi, attribuiti a comportamenti adulterini, la madre era costretta a “esporre” uno dei due neonati, per non essere accusata di adulterio.

Alle soglie del XII secolo un cavaliere templare, Guido da Montpellier fondò nel sud della Francia l’Ordine di S. Spirito che aprì case per gli esposti e orfani. La casa madre dell’Ordine fu in seguito trasferita a Roma per volontà di papa Innocenzo III, sollecitato dalle notizie che gli giungevano dalle rive del Tevere, dove i pescatori trovavano nelle loro reti corpicini di bambini buttati dai ponti nelle acque del fiume. È allora che Innocenzo III decise di fondare l’Ospedale di S. Spirito romano, dotato di una delle prime “rote” o “rote degli esposti”6.

La “ruota degli esposti” era un tamburo cilindrico ruotante, fornito di due aperture – una verso l’interno e l’altra verso l’esterno - dove si poteva alloggiare il neonato. In genere il tintinnio di un campanello avvisava dell’arrivo del piccolo la “rotara”, una guardiana di turno, che prestava i primi soccorsi. Successivamente i bambini venivano accolti dalla priora che li marchiava con una doppia croce sul piede sinistro. I piccoli venivano registrati nell’Ospedale di S. Spirito come “filiu m. ignotae”, dove la m. sta per matris (da cui il termine romanesco “mignotta”...).

Le ruote si diffusero rapidamente in Francia, Italia, Spagna, Grecia, ma non nei paesi germanici e anglosassoni, dove cadaverini di feti e neonati uccisi nei modi più diversi continuavano ad essere buttati nelle fogne e nelle discariche.

A Parigi operò Vincenzo de’ Paoli, che dedicò tutta la sua vita all’accoglienza dei bambini abbandonati e degli orfani. Nella città esisteva una infermeria che vendeva a venti soldi l’uno i bambini a gente del circo e saltimbanchi. Questi bambini venivano deformati o mutilati per farne oggetto di spettacolo sulle pubbliche piazze.

Non si possono infine non citare due istituzioni strettamente legate al problema dell’abbandono e dell’esposizione dei neonati e dei bambini: i brefotrofi e gli orfanotrofi, dovuti sempre all’iniziativa di una carità cristiana. Il primo esempio in Occidente di brefotrofio (brefon=neonato trofein=allevare) fu lo xenodochio (ospito=xeno stranieri=xeno) fondato a Milano nel 787 dall’arciprete Dateo. Più numerosi e diffusi furono gli orfanotrofi, dedicati all’accoglienza e alla cura fino all’età più matura di bambini abbandonati dai genitori, per ragioni economiche che avevano perso madre e padre in sciagure, guerre, pestilenze. L’orfanotrofio ha avuto maggiore fama e richiamo in seguito a eventi bellici, durante i quali è frequente la perdita dei parenti.

Come si può dedurre da questa breve rassegna, lo sviluppo del bambino e gli atteggiamenti nei suoi confronti sono indissolubilmente legati ad un particolare ambiente sociale e culturale ed ai vari aspetti della vita sociale, in un continuo sviluppo storico.

L’infanzia è segnata dalla crescita biologica, sociale e psicologica, in un particolare periodo della vita, durante il quale si pongono le premesse per la futura vita sociale e lavorativa della persona. La lunghezza di questo periodo dipende direttamente dal livello di cultura materiale e spirituale della società, ciò che sembra essere stato trascurato o assente per secoli, mentre si realizza, più vicino a noi, attraverso la formazione e l’istruzione, con l’avvento dell’istituzione scolastica.

Una delle caratteristiche più evidenti nella storia del rapporto essenziale per la sopravvivenza della persona più debole nel rapporto tra adulto e bambino è il comportamento “abbandonico”, della parte più forte nella relazione, che ha portato ai bambini poco dopo la nascita danni fisici, in seguito a esposizioni, incurie e maltrattamenti e ha causato, nell’evoluzione, gravi turbe psichiche. Fatti deplorevoli, che trovano una motivazione nel rapporto tra natalità e situazione socioeconomica dei genitori, obbligati il più delle volte a disfarsi del neonato perché non lo potevano mantenere, o perché era malformato, indebolito dall’inazione o ammalato.

Solo una diversa cultura, che ha il suo germe nella mentalità caritatevole di alcune comunità religiose da una parte e la maggiore attenzione della società alle necessità di coloro che ne saranno membri, fruitori e futuri artefici hanno permesso di dare l’importanza che meritano la formazione e lo sviluppo fiso-psichico dei bambini e delle bambine. Anche se non del tutto scomparsi si sono notevolmente rarefatti l’abbandono e lo sfruttamento minorile, soprattutto nelle società industrializzate, che sopravvivono nei Paesi economicamente più poveri, o vengono utilizzati da potenze industriali per trarne vantaggi economici a basso prezzo.

Fortunatamente, anche se del tutto recente, è stata stipulata una convenzione, che tutela i diritti dei bambini, la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (1989) che stabilisce i limiti di età dell’infanzia da 0 a 18 anni7.

Oggi, nelle scienze umane, si osserva un forte incremento di interesse per i problemi dell’infanzia, Nelle ricerche gli studiosi, trattano dell’“immagine dell’infanzia” e di un’“idea di infanzia” strettamente associate con la concreta forma storica della cultura.

Nelle scienze umane compare oggi anche il termine “children study” , che riunisce la storia, la pedagogia, l’antropologia, la psicologia, la filosofia, la sociologia e l’etnografia dell’infanzia, come nel lavoro della ricercatrice americana Margaret Mead, prima etnografa a dedicarsi allo studio dell’infanzia, cui si devono numerosi studi svolti nell’isola di Samoa (1924-1925), nelle Isole dell’Ammiragliato (1928/1929, 1953, 1965, 1966, 1967), in Nuova Guinea (1930-1933) e nell’isola indonesiana di Bali (1936-1939)8.

Nel suo articolo “Cultura e continuità. Studio di conflitti tra generazioni”, Margaret Mead definisce tre tipi di cultura nella storia umana:

postfigurativa: i bambini imparano soprattutto dai loro antenati;

cofigurativa: bambini e adulti imparano soprattutto dai loro coetanei. In queste culture si rileva la crescente importanza dei gruppi giovanili ed in particolare l’emergenza della cultura giovanile, e come conseguenza, del conflitto intergenerazionale;

prefigurativa: in cui gli adulti imparano anche dai loro figli.

Secondo Margaret Mead alla fine del XX secolo il mondo a poco a poco entra nell’era della cultura prefigurativa.

Ci si aspetta molto da questa promettente impostazione della cultura sulla vita del bambino e delle bambine.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Aries P. L’enfant et la vie familiale sous l’Ancien Régime. Paris: Plon, rééd, 1973.

2. deMause L (ed.). The evolution of childhood, L. New York: Peter Bedrick Book, 1974

3. Woolf V. Le tre ghinee. Milano: Feltrinelli, 2014.

4. Hillman J. Puer Aeternus. Milano: Adelphi, 2006.

5. Rupke J. La religione dei Romani. Einaudi: Torino, 2004.

6. Farnetani I. Storia della pediatria italiana. Società Italiana di Pediatria, Genova, 2008.

7. Comitato Italiano per l’UNICEF onlus, pubblicazioni@unicef.it. Convenzioni sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Roma, ottobre 2004.

8. Mead M. Il mondo del bambino. Milano: Edizioni di Comunità, 1963 (tit. orig.: Childhood in Contemporary Cultures, 1955 in collaborazione con Martha Wolfenstein).