Breve storia della tanatologia in Italia

GIORGIO DI MOLA

Medico intensivista, anestesista-rianimatore, Socio fondatore SICP.

Pervenuto e accettato il 17 gennaio 2021.

Riassunto. La storia della tanatologia in Italia è breve, come breve ne è stata la vita, e minimo è stato il successo di organizzazioni culturali che si sono impegnate nella diffusione di studi tanatologici. In questo contributo si ricordano i primi passi di una disciplina, che ha ancora un certo richiamo in Paesi come la Francia e gli Stati Uniti e che ha dato un notevole contributo alla nascita e all’interesse per le cure ai malati morenti in Occidente. Si presenta inoltre un tentativo di definizione coerente con l’evoluzione dello studio “della” morte e “sulla” morte nel nostro Paese, auspicando che la tanatologia venga accettata come materia degna di insegnamento, per la formazione culturale dei medici, soprattutto se specializzati nelle cure palliative.

Parole chiave. Storia, tanatologia, morte e morire, insegnamento, cure palliative.

Brief history of thanatology in Italy.

Summary. The history of thanatology in Italy is just short, has short is life was, and the success of cultural organizations that have engaged in the dissemination of thanatological studies has been minimal. This contribution recalls the first steps of a discipline, which still has a certain appeal in countries such as France and the United States and which has made a significant contribution to the birth and interest in the treatment of dying patients in the West countries. There is also an attempt at a definition consistent with the evolution of the study “of” death and “on” death in our country, hoping that thanatology will be accepted as a subject worthy of teaching, for the cultural training of medical doctors, especially if specialized in palliative care.

Key words. History, thanatology, death and dying, teaching, palliative care.

Nei versetti 40 e 41 della Bibbia, nel libro di Giobbe si parla di un mostro marino: il Leviatano. Dio mette in guardia Giobbe da questa figura mitica, che secondo alcune interpretazioni aveva il potere di vita e di morte sugli antichi Egizi. Probabilmente l’allusione era alle prerogative del Faraone.

Puoi tu prendere con l’amo il leviatano

e con funi legarne la lingua?

Metterai forse un giunco nelle sue narici

e con un uncino bucherai la sua mascella?

Ti porgerà forse molte suppliche,

ti rivolgerà dolci parole?

Stringerà forse con te un patto,

perché tu lo prenda

qual servo per sempre?

Giocheresti forse con lui

come un uccelletto, lo legheresti

per trastullare le tue bambine?

Ne faranno commercio i soci della pesca,

spartendolo fra i rivenditori?

Forse crivellerai con dardi la sua pelle

e con fiocina la sua testa?

Mettigli addosso la tua mano,

pensa alla lotta, non tornerai a farlo.

(Giobbe, 40-41)

Quando ho scoperto che nel mondo c’erano persone che dedicavano i loro studi in modo sistematico alla morte era la primavera del 1976 ed ero appena tornato da una piacevole e insieme spiacevole avventura in mare. Un branco di orche aveva affondato la nostra barca in mezzo all’Oceano, durante una regata che attraversava l’Atlantico da Rio de Janeiro a Portsmouth, sul canale della Manica.

Una facile simbologia (un parente prossimo del leviatano che veniva a mettere in pericolo le nostre vite) e l’incredibile e rapido salvataggio non potevano esimermi dal riflettere su quello scampato pericolo che aveva corso la mia vita.

Sono tornato al mio lavoro di anestesista rianimatore, e ogni volta che mi accingevo a far penetrare nell’oblio del dolore una persona sul tavolo operatorio era come se la immaginassi naufragare, come era successo a me, e poi a ritornare a galla, riacquistare la coscienza. Tutto sotto il mio potere...

Con alcuni miei colleghi abbiamo fatto una profonda riflessione su questa nostra facoltà di controllo sulla vita e sulla morte delle persone che ci venivano affidate per una narcosi e, mossi da alcune questioni, abbiamo chiesto agli psichiatri dell’ospedale di disegnare uno studio per esaminare le nostre inclinazioni.

Da quell’avventura per mare e dai risultati di quell’indagine, che ci confermavano un evidente atteggiamento di superiorità, è nato il desiderio di organizzare in modo più strutturato una meditazione sulla morte e sui deliri di onnipotenza che la nostra professione alimentava e faceva maturare.

Con altri due medici, della mia stessa specializzazione, abbiamo cercato di ripercorrere a ritroso la strada che aveva segnato la psicologa svizzera Elisabeth Kubler Ross, che aveva seguito e analizzato il percorso del morire e gli atteggiamenti dei medici negli USA nei confronti dei morenti. In quel contesto la studiosa, che aveva chiesto di poter intervistare malati terminali per le sue ricerche sulla morte e sul morire, si era sentita dire che “nessuno in nessun ospedale stava morendo”.

A noi, che cercavamo di partire da zero, emulando la ricerca della psichiatra svizzera nel nostro ospedale, hanno chiesto gentilmente di “non parlare di morte”. Questo voleva dire, in parole povere, che un medico non avrebbe dovuto dedicare tempo a riflessioni teoriche, a ricercare il senso di alcune questioni, riguardanti le attitudini dei medici o altro, ma doveva dare priorità all’agire, per sviluppare il proprio pragmatismo, la propria tecnica, allontanando o trascurando qualsiasi pensiero o idea di morte.

Sarà forse stato per esorcizzare questo nostro interesse, che appariva agli occhi dei colleghi come qualcosa di “macabro”, o per tenerci lontani quanto possibile, che molti aderirono prontamente e con (apparente) entusiasmo alla richiesta di iscrizione alla Società Italiana di Tanatologia (SIT), che costituimmo davanti ad un notaio il 17 Luglio del 1979. (https://digilander.libero.it/giodim/).

Nel dicembre dello stesso anno usciva il numero 1 del Bollettino SIT, con gli atti di una conferenza tenuta, a ottobre presso l’Ospedale S. Carlo Borromeo di Milano, da due psicologi: il Dott. CA Garfield, dell’Istituto di Ricerche sul cancro dell’Università della California (SHANTI Project), e il Dott. AH Schmale, dell’Università di Rochester, nello Stato di NY. Portavano la loro esperienza con malati terminali di cancro, descrivendo i progetti assistenziali generosamente finanziati dal Governo USA, che non mancarono di stupire i presenti.

Nel frattempo avevamo preparato e raccolto in una dispensa del materiale didattico, da sperimentare con il personale del nostro ospedale. Due anni dopo il materiale venne presentato e proposto al Ministero della Sanità che lo approvò con il titolo: “Avvio di corsi sulla morte e sul morire rivolti a personale ospedaliero”.

Non solo quindi la storia della tanatologia, ma anche quella dell’attenzione ai malati morenti in Italia iniziò ufficialmente alla fine degli anni ’70.

Dopo che una nostra delegazione si era recata in Francia alla Societé de Thanatologie Française, fondata nel 1966 a Parigi e di cui facevano parte Edgar Morin, Louis Vincent Thomas, Maurice Maurois, Jean Roger e altri illuminati accademici, e negli USA – presso la Foundation of Thanatology, diretta dal Dr. Elvin Kutnscher (un odontoiatra) – si cercò di interessare quello che allora si chiamava “Servizio di riabilitazione e terapia del dolore”, dell’Istituto Nazionale dei Tumori, diretto dal Prof. Vittorio Ventafidda (anestesista rianimatore), facendo pressione per avvicinare malati morenti e verificare la possibilità di una comunicazione e di un dialogo con loro.

Le reazioni, sempre le stesse, furono quelle che potevamo prevedere. Non ci fu precluso di intervenire presso i malati di cancro in fase terminale, quelli sofferenti, con dolore, ma avremmo potuto farlo solo per interventi di tipo clinico, con la raccomandazione di non parlare di morte e di non perdere tempo con la “filosofia” o con inutili “bla, bla”… Era lo stesso servizio nel quale doveva nascere, nel 1982, il centro di “Cure palliative e terapia del dolore” per malati di cancro, primo germe del movimento delle cure palliative in Italia.

Nel frattempo a Torino venne aperta una sezione della SIT fondata da M. Luisa Sturani Monti, una professoressa di lettere, benefattrice, insieme a Giacomo Mottura (ordinario di Anatomia Patologica all’Università di Torino) che alla fine del 1981 contava 150 membri. La SIT di Torino vive ancora legalmente, anche se si è andata estinguendo sul piano pratico, per una dispersione dei suoi rappresentanti e associati che hanno seguito strade diverse.

È importante considerare, alla luce dell’evoluzione “moderna” della tanatologia e delle sue acquisizioni, l’interpretazione che comunemente viene data alla tanatologia.

Si devono esaminare tre dimensioni, sulle quali si sono accentrati coloro che hanno iniziato una riflessione strutturata sul termine della vita in Italia: la dimensione clinica, ossia la cura e l’assistenza ai malati terminali, ora nota come medicina di cure palliative; la dimensione culturale, trasversale a vari campi di studio (filosofia, psicologia, antropologia, storia, ecc.) e la dimensione medico-psicologica e clinico-psicologica, che si inscrive nella “psicologia delle situazioni di crisi”.

Detto ciò, è essenziale presentare una definizione di tanatologia, da cui si possa capire cosa è inteso come “tanatologia” in Italia e dove si è indirizzata la sua storia, coerentemente con la sua definizione.

La più autorevole definizione di tanatologia è forse quella fornita nel 1989 da Louis Vincent Thomas, antropologo, fondatore e presidente della Società Francese di Tanatologia che recita:

“La thanatologie n’est pas une science de la mort mais le regroupement de tous les savoirs philosophiques, théologiques et surtout scientifiques qui en parlent. Plus exactement, elle s’intéresse à un triple objet. La mort, sa nature, ses causes et son origine, ses modalités. Le mourir et le mourant, le vécu de la mort, pour les mourants et les leurs, le droit à la mort s’il existe (euthanasie, suicide), les manières de bien mourir. L’après-mort, c’est-à-dire: les techniques de gestion du cadavre (inhumation, crémation, manducation partielle, abandon rituel); les rites funéraires avec leur cortège de symboles; les actes de commémoration ; les pratiques du deuil; enfin, l’eschatologie: mort définitive, résurrection, réincarnation, ancestralité”. (La tanatologia non è una scienza della morte, ma l’insieme delle conoscenze filosofiche, teologiche e soprattutto scientifiche che ne trattano. Più precisamente si occupa di un triplice oggetto. La morte: la sua natura, le cause, l’origine e le sue modalità. Il morire e il morente: il vissuto della morte dei morenti e dei loro parenti, se esiste, un diritto alla morte [eutanasia e suicidio] e i modi di un buon morire. Il dopo-morte: ossia le tecniche di trattamento e gestione del cadavere [inumazione, cremazione, la parziale decomposizione, l’abbandono rituale]. I riti funebri con la loro coorte di simbolismi: i modi e gli atti delle commemorazioni. Le pratiche del lutto. Infine l’escatologia: la morte irreversibile, la resurrezione, la reincarnazione, il mondo degli antenati).

Malgrado l’ampio ambito di interessi elencati, Thomas non è riuscito a dare una chiara e soddisfacente definizione della tanatologia, soprattutto quando si riferisce al sapere “scientifico” sulla morte (difficile da sostenere) e, rispetto ai tre ambiti di studio, quando rimanda all’escatologia, campo più pertinente alla storia delle religioni, che non alla “tanatologia” propriamente detta.

Dato che per avere un quadro chiaro e più attinente alla nostra ricerca storica sull’evoluzione della tanatologia nel nostro Paese non si può prescindere da un tentativo di definizione accettabile, pensiamo che si debba limitare il campo solo alla dimensione culturale e più specificatamente antropologica. Infatti, anche se è storicamente indiscutibile che in Italia l’attenzione a malati morenti e una cellula delle cure palliative nascono dalla riflessione sugli atteggiamenti dei medici nei confronti della morte, è parso a molti controproducente assimilare la tanatologia, anche in una sua porzione (quella che Thomas definisce clinica), alla medicina dei malati terminali. Sarebbe come tirare per la giacca professionisti, in un campo di cui pochissimi hanno un’esatta cognizione e poco propensi ad avere un “ruolo” nella tanatologia. Se invece, e per assurdo, si fosse ufficializzato che una dimensione della tanatologia – quella “clinica” - si inscrive necessariamente nelle cure palliative, è probabile che nessun medico o infermiere “palliativista” avrebbe avuto da ridire nel sentirsi definire “tanatologo” o specialista che si occupa di tanatologia. In verità il medico palliativista, il tecnico che si occupa del controllo dei sintomi, delle cure di supporto, non è un tanatologo, perchè lo studio della morte non è una disciplina che lo ha accompagnato, né per ora lo sta accompagnando nell’applicazione delle sue abilità.

Pertanto una definizione di tanatologia, che si adatti alla realtà, è quella più coerente con il significato etimologico di studio “sulla morte” e “della morte”. “Sulla” morte, ossia la parte più prossima alla dimensione che abbiamo chiamato culturale, la riflessione sulla morte, la parte filosofica; e lo studio “della” morte, ossia la parte che riguarda le investigazioni più “materiali”, cliniche e biologiche, di trasformazione del corpo, in cui si inserisce anche la tanatologia funeraria o funebre.

La diffusione e l’interesse per la tanatologia in Italia sono stati comunque deludenti e poco soddisfacenti anche in questi limitati ambiti, se si escludono isole felici come quella di Francesco Campione (Docente Psicologia Clinica alla Facoltà di Medicina dell’Università di Bologna. Coordina inoltre il Servizio di Psicologia degli Hospice di Bologna), della Fondazione Fabretti a Torino (studi sul fine vita, ricerca, dialogo, confronto e sostegno di fronte alla morte e il morire) (http://www.fondazionefabretti.it/) che sono le uniche che parlano apertamente ed esplicitamente, direi in modo istituzionale, di morte e di lutto, insieme all’interessante iniziativa di Marina Sozzi, filosofa, già Direttrice della suddetta Fondazione Fabretti, con il suo blog “Si può dire morte”, che raccoglie molte adesioni sul web (https://www.sipuodiremorte.it/).

Oggi nessuno, in fondazioni e associazioni che si occupano di morenti e malati terminali in Italia, vuole essere “confuso” con la tanatologia. Tanatologia suona ancora come qualche cosa di macabro, di cattivo gusto, di morboso. Questa è la realtà. Ecco perché dal 1979 ad oggi – a parte quelle citate – non si sono viste nascere iniziative di peso in questo campo, se non per intervento, piuttosto “interessato” bisogna riconoscere, di società di pompe funebri, un altro aspetto e dimensione della tanatologia, che fa parte dello studio “della” morte (la tanatoprassi e gli aspetti commerciali della morte). Basti pensare che negli anni 70’-80’ la Società Francese di Tanatologia riceveva somme ingenti per i suoi studi sulla morte da imprese di pompe funebri. Noi stessi abbiamo avuto numerosi contatti con associazioni e imprese di tanatoprassi, che chiedevano interventi di tipo culturale o studi di settore, in cambio di modeste “sponsorizzazioni”.

Ecco perchè una vera e propria Società di Tanatologia in Italia con un numero importante di associati non esiste. Ecco perché anche la nostra Società di Tanatologia, quella nata nel 1979, vive oggi solo virtualmente, e, infine, ecco perché sono portato a credere che se non rinnoveremo e ristruttureremo la tanatologia, soprattutto lo studio “sulla” morte nella dimensione culturale, questa disciplina sarà destinata ad estinguersi con l’estinzione dei suoi cultori.

Un’inchiesta fatta al proposito dall’Istituto di Campione, che ha coinvolto 74 realtà in campo clinico, nell’ambito di cure terminali, ha visto rispondere solo 23 istituti all’apposito questionario, che risultano dedicati ad un’attività clinica, che non riguarda la formazione professionale o la specifica attività nel settore culturale della tanatologia, se si escludono appunto l’Università di Bologna, la Fondazione Fabretti e un servizio per l’assistenza alle persone in crisi e per il suicidio dell’Università di Padova, che cura inoltre un master in Tanatologia (https://www.almalaurea.it/informa/news/2021/09/22/master-death-studies).

Il quadro non è certo soddisfacente, anche se, ricordando l’inizio delle riflessioni e l’interesse sui malati morenti, è proprio alla tanatologia che in un certo modo si deve la nascita e lo sviluppo che hanno le cure palliative e gli hospice, certo in gran parte dovuta ad un cambiamento di mentalità, ad un cambiamento di direzione nelle attitudini di alcuni medici, ma anche a questioni di politica sanitaria, che hanno permesso di dare dignità e ampliare il campo dell’assistenza ai morenti.

Per quanto detto va dato atto al grande lavoro che medici e altri professionisti hanno dedicato allo studio sulla morte e sul morire, dando decisivi spunti alla prassi nei confronti delle persone morenti.

Infine, non sarà più così facile sottrarsi dal considerare essenziale una riflessione strutturata sul morire e sulla morte, oggi che il movimento hospice in Italia ha portato ad un incremento importante di letti per malati al termine della vita.

In ogni regione vi sono attualmente più centri di aggregazione di pensiero e maggiori necessità di formazione nell’ambito delle cure palliative, che non potranno prescindere da una tanatologia a tutto spessore, arricchendo così una didattica che non può più ignorare una materia tanto utile alla maturazione culturale dei curanti. È il mio sincero auspicio.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza del conflitto di interessi.