Anche il bambino deve sapere

GIORGIO DI MOLA

Medico intensivista, anestesista-rianimatore, Socio Fondatore SICP.

Pervenuto il 13 gennaio 2020. Accettato il 14 gennaio 2020.

Riassunto. Esistono molti fraintendimenti e incomprensioni, voluti o involontari, che caratterizzano e provocano quell’apparente insanabile distanza tra il mondo degli adulti e quello dei bambini. Tra le situazioni più dannose nel rapporto con l’infanzia è l’incapacità dell’adulto o la mancanza da parte di chi ha rapporti di cura e di educazione del bambino di possedere e usare strumenti adatti a comunicare la realtà della morte. Secondo molti esperti di psicologia dell’infanzia e di comunicazione, ciò può essere alla base della formazione di una personalità disturbata nel bambino e di sue convinzioni pericolose per la sua salute mentale. Questo contributo sottolinea gli aspetti problematici del discorso sulla morte, con riferimento particolare alla condizione dei soggetti più giovani e fragili, che sono affetti da patologie inguaribili.

Parole chiave. Bambino, morte, comunicazione, cure palliative.

The child too has to know.

Summary.There are many misunderstandings, intentional or involuntary, that characterize and cause that seemingly incurable distance between the world of adults and that of children. Among the most harmful situations in the relationship with childhood is the inability of the adult, or the lack on the part of those who care and educate the child, to possess and use suitable tools to communicate the reality of death. According to many experts in childhood psychology and communication, this can be at the basis of the formation of a disturbed personality in the child and his beliefs that are dangerous for his mental health. This contribution underlines the problematic aspects of the discourse on death, with particular reference to the condition of younger and more fragile subjects, who are affected by incurable diseases.

Parole chiave. Children, death, communication, palliative care.

Per affrontare il tema del bambino, come soggetto di cure che richiedono interventi palliativi è necessario esaminare il rapporto dell’infanzia con il dolore e la morte. Una relazione che si sviluppa nel tessuto culturale, sociale e famigliare, del bambino.

La morte mette in forse i progetti, la pianificazione del futuro, le speranze: per questo è lo scandalo massimo dei nostri tempi, il paradosso di un’epoca obbligata a sostenere la cultura della certezza, che pretende risposte sicure su ogni quesito, sulla morte stessa, malgrado sia l’unica certezza paradossalmente rifiutata.

Questa palese contraddizione, radicata tanto nel nostro inconscio da farci sentire immortali, ha dato alla morte quelle caratteristiche totemiche, che l’assimilano ai tabù primitivi.

Della morte non si parla e se lo si fa è per il minimo indispensabile, per ricordare un defunto, commentare un incidente o una catastrofe.

In uno studio degli anni ‘80, il sociologo Jeffrey Gorer osservava che quando la nostra società si trova a dover affrontare i problemi del morire e della morte manifesta gli stessi imbarazzi che nell’epoca vittoriana nascevano nei confronti del sesso1.

Tuttavia, Gorer non completa del tutto l’analisi del problema delle forti inibizioni relative al discorso sulla morte. Lascia infatti insoluta la questione del linguaggio: se davvero si può parlare e con che vocabolario descrivere ciò che, come la morte, è ignoto ed è concetto astratto. A ciò si aggiungono, almeno nella nostra cultura, le difficoltà prodotte da certi pregiudizi e superstizioni, come se il parlare di morte potesse produrre un’identificazione con la morte stessa.

La vulgata del “parlare di morte” accosta il tema a racconti e credenze su spiriti, sull’al di là, fantasmi e altre fantasie che evocano lutti, disgrazie e provocano conseguenti comportamenti apotropaici. Il discorso sulla morte, nella nostra cultura, è per questo più spesso accompagnato da scongiuri, che da serie e serene riflessioni. La morte è comunque e sempre un’oscenità.

Lo scandalo provocato dalla morte non si limita alla mancanza di capacità comunicative, ma colpisce e reca danno a chi ne è un simbolo, come il malato, il quale è immagine della fragilità delle vicende che legano malattia e morte. La malattia è scandalo, perché simbolo di inefficienza ed emarginazione, e preludio o sicura anticamera della morte.

Lo scandalo della morte nell’infanzia

Se malattia e morte turbano le coscienze degli adulti e sono insopportabili per la nostra società, cosa dire allora della malattia e della morte del bambino?

Le morti in età infantile non hanno mai turbato le comunità tribali, che le collocano tra gli eventi accettabili, perché statisticamente più frequenti, mentre la nostra società le vive con profonda inquietudine.

Lo testimoniano personaggi illustri, come il grande musicista Gustav Mahler che nei Kindertotenlieder e nella III e IV sinfonia, ha lanciato il grido di dolore e incredulità per la morte dei bambini. Nelle sue lettere la moglie Alma si chiede come potesse il musicista provare tanta sofferenza, dato che all’epoca delle due composizioni, Mahler ancora non aveva avuto esperienze di morte di bambini.

Per la nostra psiche, la morte di un bambino resta un evento difficile da ammettere e comprendere.

Si sa che l’inconscio porta ad accettare più facilmente la morte di un adulto. La morte di una persona anziana poi, come spiega il filosofo J. Paul Landsberg, viene considerata un evento naturale, perché la nostra esperienza della morte non ci dice che dobbiamo morire, possiamo solo dedurlo da altre morti. Della morte conosciamo solo ciò che possiamo ricavare dall’esperienza della morte dell’altro. Se poi la morte avviene in tarda età, questo ci suggerisce che la persona anziana ha in qualche modo raggiunto il termine e compiuto la parabola della sua esistenza, per cui la sua morte non ci sembra solo “naturale”, ma in un certo senso anche “giusta”2.

Ma come spiegare e rendere razionale la morte di una vita che ha appena visto l’alba e come si può pensare di affrontare l’argomento della morte con un bambino? Se non esiste un linguaggio per la morte nell’adulto, si può forse pensare poi ci sia quel vocabolario per un bambino?

Gorer diceva che oggi della morte si può parlare solo con toni bassi, accompagnati da sorrisi nervosi e soprattutto mai in presenza di bambini.

Gorer sosteneva anche che nelle scuole, dove si cerca di affrontare con naturalezza un problema delicato come il sesso, altrettanto dovrebbe avvenire per il tema della morte. Invece ai bambini viene fatto credere che il fratellino sia nato sotto un cavolo o che l’abbia portato la cicogna, così come viene raccontato che il nonno è scomparso in volo nel cielo o trasformato in un campo di fiori.

Oggi sono forse meno i bambini ai quali si fa credere di essere nati sotto un cavolo o comprati al mercato, ma si fa ancora loro credere che il parente morto, il compagno scomparso, si sono trasformati in aerei angioletti o nuvolette evanescenti.

Vi è dunque una effettiva difficoltà di comunicazione che riguarda genericamente la cultura e il rapporto con il bambino e in particolare quando è affetto da una patologia inguaribile.

Parlare della morte ai bambini

Dobbiamo riservare agli specialisti, psicologi e agli educatori, il compito di andare a rivedere le osservazioni di Werner Fuchs sull’inibizione comunicativa o le tesi di Sylvia Anthony sulla scoperta della morte nell’infanzia, che traducono in concreto l’esigenza di comunicare anche ai più piccoli la realtà della morte, con opportuni programmi educativi3. Possiamo solo aprire una riflessione sul livello oggi della comunicazione sulla morte nell’educazione del bambino e discutere sugli argomenti portati contro la necessità di parlarne con loro.

Esiste infatti un luogo comune, per il quale si crede che il bambino sia molto più fragile e impressionabile dell’adulto, da cui la convinzione che di morte con i bambini se ne debba parlare il meno possibile, o solo “quando sarà il momento”.

Una ricerca sul problema ha messo in evidenza che in un campione di più di mille persone, alla domanda “A suo parere per l’educazione del bambino è giusto affrontare con lui il problema della morte?” il 18% ha risposto affermativamente, mentre il 38% sostiene che sia giusto parlargliene, ma solo dopo i 10 anni ed il 33% che “è meglio evitargli il più possibile questi problemi tristi”. Alla domanda: “Come ci si dovrebbe comportare con i bambini nel caso di un lutto in famiglia?” il 15% ha risposto che si dovrebbe nascondere al bambino per quanto possibile questo evento e il 69% ha risposto che si dovrebbe renderlo partecipe, ma con le necessarie cautele.

Pertanto, al bambino non si dovrebbe parlare della morte, perché ne rimarrebbe impressionato in modo negativo. Si può immaginare che chi lo sostiene voglia dire che parlandone si procurerebbe un danno, sotto forma di sentimenti di paura, o addirittura uno shock, con relativa reazione da stress4. Per quanto sappiamo da sociologi e psicoterapeuti, ciò può avvenire, ma la negatività della risposta è relativa al tipo di comunicazione.

Secondo Fuchs (“Le immagini della morte nella società moderna”) nei meccanismi di socializzazione vi è una duplice inadeguatezza nel trasmettere il tema della morte al bambino: un’inadeguatezza di tipo verbale e non verbale. Sempre secondo l’autore la mancanza totale di comunicazione o una scorretta comunicazione possono avere conseguenze dannose, fino a manifestarsi nello sviluppo di personalità disturbate. Per questo suggerisce di unire a un’educazione sessuale, come parte integrante della cultura, una spiegazione razionale, equilibrata e commisurata all’età sulla necessità della morte e sulle sue conseguenze. L’autore conclude che, se gli adulti non riescono a superare la propria difficoltà di comunicazione – la loro “inibizione comunicativa” – l’angoscia di morte viene intensificata nel fanciullo, per il fatto che il bambino non viene sufficientemente o per nulla informato sull’oggetto della sua angoscia5.

Le favole e la storia

Il paradosso è che i bambini già posseggono e ricevono moltissimi elementi per affrontare il tema della morte. L’esempio di come si parli di morte ai bambini, molto più spesso di quanto non si creda, viene dalla tradizione popolare.

La tradizione ha tramandato racconti per bambini che parlano di morte in modo esplicito. Come nelle fiabe della tradizione nordica o di lingua tedesca, che rasentano il macabro, come “Pierino Porcospino” e “La piccola fiammiferaia”.

La morte compare anche nelle fiabe più apparentemente prive di riferimenti, come Biancaneve, Cappuccetto Rosso, La Bella Addormentata, dove è più evidente l’elemento simbolico di Biancaneve avvelenata dalla mela o della Bella Addormentata resuscitata dal Principe.

In una raccolta di fiabe siciliane la morte compare come il “cattivo gettato nell’olio bollente, come la morte apparente della donna che si punge con l’arcolaio e dorme dieci anni, o come morte e resurrezione del protagonista, che si sveglia dopo l’assunzione di una pozione di erbe magiche6.

Nelle culture più tradizionali le fiabe hanno il compito evidente di introdurre il discorso sulla morte e sulla ritualità che l’accompagna: i passaggi, il lutto, i viaggi nell’ al di là.

La favola è in sé stessa un fatto rituale, dal momento che l’argomento della morte è trattato in una prospettiva formale, che la mette a distanza. La favola ha perciò una funzione sociale, perché rappresenta un sistema cifrato di riferimento, un codice, a cui rapportare tutto il corso dell’esistenza, dalla vita alla morte.

Il discorso sulla morte, ostacolato da difese e difficoltà di linguaggio, radicate e conservate nell’età adulta, trova dunque nell’espressione della favola uno strumento efficace per comunicare con il bambino. La favola è sempre fonte di curiosità da parte dei bambini e di domande, alle quali si può rispondere in un clima di serenità e fiducia, non condizionato da circostanze tragiche che possono metterli in difficoltà.

Se consideriamo le osservazioni di storici come Ariès e Vovelle, a proposito di ciò che si può dire o leggere al bambino, possiamo vedere come verso la fine del XVI secolo si consigliava di non leggere ai bambini “solo ballate o libri stupidi, ma la Bibbia e trattati sulla morte, sull’inferno e il Giudizio”. Non esisteva dunque il problema di difendere i bambini dal pensiero della morte, anzi venivano spinti a riflettervi.

Le analisi di sociologi come Gorer, Jean Ziegler e degli storici sopra citati, a diverso titolo, portano alla conclusione che la morte e il modo di morire hanno subito profonde trasformazioni nel corso dei secoli, sino a quella negazione e/o rimozione della morte che caratterizza il nostro periodo storico, e si è modificata anche l’esperienza diretta della morte per il bambino, perché sino alla fine dell’800 la morte era un avvenimento comune, dato l’alto grado di mortalità, e il bambino imparava presto l’esistenza della morte nella propria cerchia famigliare7-9.

Philippe Ariès osserva come sino almeno a trecento anni fa la categoria dei bambini includeva in qualche modo tutte le persone dipendenti e l’esperienza della morte di un bambino non era essenzialmente differente da quella di un adulto. Solo in seguito, il gruppo dei bambini è diventato qualcosa di differente e di speciale, soggetto a sanzioni e protezioni particolari. Questo è avvenuto non per una evoluzione del concetto di infanzia, ma per un abbandono da parte della popolazione degli adulti di forme di pensiero primitive e di credenze, che erano trasmesse ai bambini come convinzioni.

Anche se oggi gli adulti non vi credono, queste convinzioni continuano ad essere trasmesse ai bambini, in parte come strumenti di negazione, in parte come mezzi per trarsi dall’imbarazzo.

L’esperienza della morte nel bambino

Anche se il riferimento oggi non è dunque così esplicito, la morte occupa grandi spazi nelle fantasie del bambino, perché fa parte della sua vita quotidiana: nei giochi, nelle storie che ascolta, nei programmi televisivi, nei film. Per questo la concezione infantile della morte tende a riflettere quella della società, in cui i fanciulli vivono ed ovviamente risente degli insegnamenti che ricevono.

Tuttavia la psicologia dell’infanzia avverte che il pensiero della morte può generare angoscia nel bambino, suggerendo di evitare quella negatività che deriva da un cattivo controllo delle dinamiche relative al sentimento di separazione. La morte, che è la separazione per eccellenza dall’oggetto amato, può suscitare sentimenti di aggressione e ostilità, se si sviluppa quel complesso di colpa legato al desiderio inconscio della morte dell’oggetto amato.

Un altro aspetto, causa di un atteggiamento negativo della morte da parte del bambino, è stato rilevato dagli studiosi quando la morte viene facilmente o troppo spesso associata a fenomeni come la vecchiaia. Trasmettendo infatti al bambino la sicurezza che non essendo ancora vecchio non può morire, il bambino può dedurne che i più piccoli non muoiono mai e potrebbe non voler più crescere.

La dimostrazione di questa credenza/difesa è la testimonianza raccolta dagli stessi autori, nelle interviste con bambini ai quali si chiedeva un loro parere su certe storielle. Come quella che racconta: “In un cimitero si è scoperto uno scheletro che pensano appartenga a Cristoforo Colombo quando aveva dieci anni... Mi sai dire cosa c’è di stupido in questa storia?” La risposta di una bambina è stata: “A dieci anni non so come puoi morire, a meno che qualcuno non ti ammazzi...” E un altro bambino ha risposto: “Colombo non può essere morto a dieci anni, perché un bambino non può essere un nemico”.

Secondo alcune teorie per impedire questi fenomeni di regressione, il bambino non va privato della conversazione con gli adulti e non si deve rafforzare l’idea che le apparenze corrispondano sempre alla realtà10.

Ciò ribadisce l’utilità dei simboli semplici riportati nelle fiabe, come metamorfosi o cambiamenti, che mettono in guardia sulle apparenze ingannevoli.

Il bambino che muore

Per quanto detto, parlare con un bambino che muore, registrare le sue impressioni non è solo un compito arduo, ma doloroso e gravato dal pathos della sua condizione. L’emotività che porta con sé l’idea di avere a che fare con un piccolo paziente, che non può essere guarito può essere attenuata solo nella certezza che il nostro intervento dialogico abbia una ricaduta positiva.

Chi ha documentato queste situazioni e la conseguenza dei propri interventi ha potuto testimoniarlo con le parole spontanee, i disegni e i comportamenti dei bambini malati.

È nota l’opera di una psicanalista freudiana, Ginette Raimbaud, che ha lavorato per più di dieci anni come ricercatrice in un servizio di pediatria dell’Ospedale dei bimbi di Parigi, secondo la quale per il bambino ciò che è più doloroso, non è tanto l’idea della propria morte, ma il fatto che da chi lo circonda, “non arrivi alcuna parola per permettergli solo di nominare l’evento, di “digerirlo” e trasformarlo, per farlo entrare nella sua storia”.

La psicologa porta la testimonianza di una bambina con un tumore, che dice: “Non mi dicono mai niente, ma io so. Io ho un tumore. Si muore...ci sono dei bambini che muoiono, anch’io morirò” e quella di un’altra piccola paziente che scrive: “È triste essere separati dai genitori è la prima volta che sono in un ospedale e non riesco a dormire. Faccio dei brutti sogni e non ho nessuno vicino che mi tranquillizza. Di notte vedo una persona morta”. Un bambino che teme che i suoi non gli vogliano più bene: “Tu mi vuoi ancora bene...malgrado ti procuri tanto male...?” e un altro: “Mi vuoi bene anche se ti disturbo? “E infine le parole di un bambino che della morte dice: “Quello che è molto brutto nella morte è che non si sa che si è morti”11.

Da queste testimonianze si può constatare quanto possa coincidere il sentimento di solitudine nel bambino che accompagna la morte anche nell’adulto: simili sono i dubbi e le difficoltà di comunicazione, ma molti sono anche i fraintendimenti, come sul concetto di piacere e felicità. “La felicità – dice lo psichiatra Thomas Szasz (“Emotions”) – è una condizione immaginaria... oggi generalmente attribuita dagli adulti ai bambini e dai bambini agli adulti”12.

Sono questi fraintendimenti o involontarie incomprensioni, che possono essere causa dell’approfondirsi della frattura tra il mondo degli adulti e dei bambini, tanto più penosa, quanto più il bambino subisce un evento doloroso, che conosce solo come un evento proprio al mondo degli adulti, che non può essere suo e di cui chiede perciò una spiegazione o almeno una giustificazione13-15.

Conclusioni

Come difesa dall’angoscia di morte le filosofie esistenzialiste hanno risposto con lo scetticismo, l’agnosticismo, il distacco cinico dal valore della vita e il significato della morte. Le grandi religioni, con la speranza e la fede consolatoria in un al di là, che accomuna credenti di varie confessioni, hanno collocato la morte alla fine di una parabola, che segna non la fine, ma il fine della vita.

Si sta affermando oggi un atteggiamento laico, figlio del processo di secolarizzazione di una società che, privata dei sensi di colpa della trasgressione, sostiene l’edonismo, la spinta narcisistica all’affermazione economica, utile a rimuovere il pensiero della morte, trasformata dalla mercificazione in spettacolo e oggetto di consumo, estraneo ai bisogni esistenziali delle persone.

Il bambino, che recepisce e assorbe questo clima, muta il suo mondo interiore, un luogo particolarmente favorevole alla trasformazione, con la sua fantasia che attinge ad un mondo magico, colmo di possibilità positive, dove ciò che acquisisce è spesso messo in forse dalla mancanza di risposte a lui comprensibili, o addirittura da una forma di indifferenza da parte degli adulti.

La sofferenza del bambino chiede invece una risposta, così come il bambino chiede le parole che gli facciano comprendere, se non accettare, la sua condizione, attraverso un rapporto onesto con chi gli è più vicino e lo ha rassicurato in altri momenti meno dolorosi, con la sua presenza, il suo amore e la sua autorità.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Gorer G. The pornography of death. In: Gorer G (ed.). Death, grief and mourning in contermporary Britain. Garden City, NY: Doubleday, 1965.

2. Landsberg JP. Saggio sull’esperienza della morte. Milano: Moizzi, 1980.

3. Anthony S, La scoperta della morte nell’infanzia. Roma: Armando editore, 1974.

4. Di Mola G (a cura di). Qualità della vita e morte individuale, una ricerca Fondazione Floriani. Milano: Politeia, 1990.

5. Fuchs W. Le immagini della morte nella società moderna. Milano: Einaudi, 1973.

6. Pitrè G. ... o salti questa finestra. Fiabe e racconti popolari siciliani sulla morte per la prima volta tradotti in italiano. Roma: Savelli editore, 1979.

7. Ziegler J. I vivi e la morte. Milano: Mondadori, 1978.

8. Ariès P. L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi. Bari: Biblioteca Universale Laterza, 1985.

9. Vovelle M. La morte e l’occidente. Bari: Laterza, 1983.

10. Solle D. Sulla sofferenza. Bologna: Dehoniane, 1970.

11. Raimbaud G. Il bambino e la morte. Firenze: La Nuova Italia Ed., 1978.

12. Szazs T. Il secondo peccato. Londra: Rootledge &Kegan ltd., 1973.

13. Vianello R, Marin M. La comprensione della morte nel bambino. Firenze: Giunti Barbera Ed., 1985.

14. Leisô M. I bambini di fronte alla morte. Torino: Elledici Ed., Leumann,1993.

15. Lonetto R. Childrens conceptions of death. New York, Springer Pub. Co, 1980.