Scelte difficili per i servizi di cure palliative al tempo
del coronavirus

Carissimo Direttore,

in questo momento di grosso affanno dell’intero sistema sociale e sanitario a livello mondiale, da palliativista territoriale mi chiedo, e mi è già stato chiesto dalla mia organizzazione sanitaria, come rimodulare la nostra attività lavorativa.

Dopo le scelte fatte, due i pensieri che corrono liberamente su binari che non sembrano incontrarsi:

1. da operatori sanitari siamo pienamente consapevoli che le limitazioni decise dal governo abbiano lo scopo di evitare uno tsunami che sommergerebbe l’organizzazione sanitaria e di conseguenza tutti i cittadini, tra cui gli stessi operatori, più esposti che mai. Da ciò la mia scelta di operare per quanto possibile da remoto e, come un “call center”, chiamo per aggiornamenti quotidiani i servizi territoriali, sono a disposizione dei colleghi della medicina di famiglia e degli infermieri del territorio per condivisione e rivalutazione di terapia di pazienti noti, per colloqui telefonici con pazienti e familiari, in tutte le situazioni in cui la rivalutazione clinica al letto della persona non sia richiesta per sintomi che richiedano competenze di 2° livello. Infatti, nei casi in cui ciò emergesse, si interverrebbe anche allo scopo di ridurre gli accessi alle strutture sanitarie, mantenendo allo stesso tempo fede al mandato delle cure palliative: controllo della sofferenza possibile. Anche per questo, abbiamo garantito una pronta disponibilità telefonica h 24 “volontaria” (in quanto non prevista dalla nostra organizzazione aziendale) per dare supporto ai colleghi del Servizio di Continuità Assistenziale, a copertura dei famigerati “buchi neri” notturni e dei fine settimana. Tutto sembra ben ponderato e logico, ma…

2. nel tempo delle cure palliative – tempo fatto spesso dello stare e non del fare, di ascolto più che di parole dette... il pallium che accoglie tutti – ci ritroviamo a gestire una “vicinanza” a distanza di “sicurezza”, relazioni veicolate da una cornetta che “blocca” il 90% della comunicazione, quella non verbale. Quindi la relazione tra la diade malato/famiglia e gli operatori, sempre alla base della cura e che diventa fulcro nelle cure palliative, viene stravolta e a rischio di essere asettica, quasi più simile a quella a cui ci hanno abituato i social... appunto 4.0.

Dopo alcuni giorni di applicazione della procedura abbiamo rilevato come le persone (malati e familiari) apprezzino in questo momento anche il solo contatto telefonico, di supporto, di rinforzo. Ma questo nostro riscontro è sufficiente a dire che abbiamo fatto delle scelte etiche?

E allora alcune domande da operatore.

Questo modello di relazione risponde a pieno al mandato delle cure palliative?

Scelte, che appaiono rispondere ai 4 principi della bioetica (autonomia, beneficialità, non maleficialità, equità), sono ancora appropriate in tempi di “guerra” come quelli che stiamo vivendo? Se così non fosse, quale strada etica seguire?

Tenendo conto che il bisogno è una mancanza soggettiva, è etico rispondere “solo” a quelli che noi abbiamo valutato come primari, vale a dire i sintomi?

Questa “relazione 4.0” può essere uno strumento adeguato a raccogliere tutti i bisogni del tempo delle cure palliative?

Le scelte fatte riescono a dare una risposta etica a chi già “sa” che sta morendo?

Saluto te e tutti i colleghi del mondo delle cure palliative, lasciandovi quanto mi ha inviato, come supporto, un nucleo che ha “salutato” la scorsa estate un giovane marito/papà: le bambine hanno voluto disegnare il grande arcobaleno con la scritta “ANDRÀ TUTTO BENE” per esporlo sulla facciata della loro casa (visibile dall’autostrada) a sostegno di chi sta gestendo questa emergenza, il loro modo per dire grazie e regalare un sorriso:




A tutti gli operatori sanitari che passano con le ambulanze verso Udine e ritorno…

A tutti i medici, gli infermieri, le OSS, le signore che puliscono gli ospedali e tutti gli altri operatori sanitari…

Ai sindaci amici di papà e a chi deve prendere delle difficili e discusse decisioni…

ai poliziotti, carabinieri, vigili e protezione civile che devono sorvegliare e vegliare su di noi…

A tutti quelli che passano da qui sopra casa e hanno bisogno di un sorriso…

“Non tutti i giorni

possono essere buoni,

ma c’è qualcosa di buono

in ogni giorno”.

ANDRÀ TUTTO BENE

Chiara e Viola

San Daniele del Friuli, 16 marzo 2020
Carmela De Fusco
Paola Ponton

La mascherina:
segno involontario
di cura fraterna

Carissimi,

in questo tempo strano e qualitativamente inedito, sento forte il desiderio di condividere con voi i sentimenti particolari, le emozioni nuove e i pensieri diversi che attraversano la mia mente e il mio cuore.

Da diversi giorni, ormai, viviamo un tempo in sospensione, un tempo nuovo, fatto di raccoglimento più o meno forzato, di solitudine, di silenzio, di aria pulita ma anche densa di ineffabile minaccia, sospesi tra un recente passato, fatto di abitudini e usi che nella routine della quotidianità ci sembravano quelli giusti, quelli a noi più consoni, più adeguati ai nostri desideri, e un futuro prossimo di cui non si riescono a capire la sostanza, i propositi, la realtà. Sospesi in un presente fatto di esperienze nuove ma sempre straordinariamente e pienamente umane, tutte nostre, tutte vere.

Oggi viviamo un tempo fatto di coercizioni e di obblighi stringenti che sembra vogliano addirittura minacciare i nostri diritti fondamentali, le nostre aspirazioni più consolidate e sottintese, i nostri desideri più scontati. Eppure, nonostante ciò, non percepisco particolare sofferenza, una iniziale stanchezza forse, ma non sofferenza, né nel corpo né nella mente né nel cuore.

Uscendo, la mattina, esperienza inedita: ascolto il silenzio della città, respiro un’aria non più da officina meccanica, ma quasi da collina, vedo pochi uomini, quasi nessuno. Provo un inquietante senso di pace. In Ospedale, lo stesso; addirittura il Pronto Soccorso, da che mi ricordo sempre mèta di pellegrinaggio, più o meno inconsulto e ingiustificato, di folle di uomini e donne che ritenevano ogni cosa “urgente”, ogni cosa degna di prima, indifferibile e assoluta attenzione, ora è deserto, avvolto in un silenzio surreale, in una dimensione templare, in cui anche si può parlare sottovoce. Lo stesso al ritorno, quando ti aspetti il “giusto” caos, il normale movimento, il normale scorrere frenetico dell’umanità dell’ora di punta; e invece constato che è come quando ero uscito la mattina presto, persiste il silenzio, l’aria bella, una luce diversa.

Torno a casa, ci sono i miei, confinati ormai da quasi dieci giorni, e mi scopro più fortunato di loro, perché ho la “giustificazione” per poter uscire ogni giorno; anche se questo, lo so, mi espone ad un rischio superiore che non posso far correre anche ai miei familiari. E dunque torno a casa, ma devo osservare la mia famiglia da lontano, almeno da un metro, stando attento a cosa tocco, a dove metto le mani, queste mie mani mai state così candide: tutto senza baci, senza abbracci, senza l’esperienza, che scopro ora ancor più necessaria, urgente e fondamentale per me, per l’uomo, del toccarsi, della prossimità anche fisica.

Per le stesse ragioni sento i miei genitori per telefono, per fortuna ancora precariamente stabili e con una certa autonomia, ma troppo vecchi per potere rischiare un eventuale contagio di cui difficilmente potrei perdonarmi. Anche qui, dunque, nessuna fisicità.

E anche in Ospedale, nel mio reparto, in Hospice, dove il tocco, il toucher, l’abbraccio, la carezza, lo stringersi le mani, il bacio sono parte fondamentale delle cure, mi sento mortificato nelle mie possibilità fondamentali, nei miei diritti di uomo e di medico palliativista. È dura trattenere uno slancio di affetto che anticipa la fisicità dell’abbraccio, di una carezza o di un bacio, di fronte alla sofferenza, di fronte al dolore, di fronte alla morte.

Siamo costretti a condividere la nostra umanità a distanza, costretti ad osservarci da lontano più che a toccarci, costretti ad ascoltarci più che a guardarci.

Certo, è bello stare a casa, ma era più bello quando a casa ci si tornava, dopo una giornata di lavoro, dopo le fatiche della quotidianità, anelando al gesto semplice del potersi togliere le scarpe e mettersi finalmente comodi per godere di un tempo di quiete, di un tempo atteso e meritato. La casa, la nostra casa, il nostro rifugio, fatto in primo luogo per la libertà con cui ognuno si può esprimere nell’intimità con naturalezza e leggerezza, è oggi una realtà obbligata: il nostro orizzonte, la libertà del nostro pensiero e del nostro desiderio, non può contemplare oggi la possibilità di tornare a casa, ma solo l’impossibilità di uscirne. È bello quando a casa si sceglie di tornarci, non quando si è obbligati a starci.

Eppure, oggi siamo chiamati a questa responsabilità enorme, grave e salvifica che non possiamo permetterci di disconoscere, che non possiamo non “ascoltare”. E, badate bene, facciamo attenzione, è una responsabilità che, se realizzata nella concretezza del rispetto delle norme di prevenzione in questo tempo di pandemia, solo a prima vista e come primo, fugace effetto serve a proteggere me stesso: la mia, la nostra chiamata oggi è alla custodia degli altri, dell’altro uomo, dell’altra donna, del fratello e della sorella più fragile, anche se inconsapevolmente, anche se non ci sembra. È come se fossimo costretti da una natura bizzarra, che ci sta chiedendo di riprogrammarci, di rallentare e di riguardare le nostre priorità, ad avere cura in primo luogo per l’altro, a farci prossimi, pur pensando che invece lo stiamo facendo in primo luogo per noi stessi, per salvare la nostra pelle.

Camminando per andare in farmacia o per andare a fare la spesa, per andare al lavoro o alle Poste, vedo sguardi fugaci e sospettosi, di uomini e donne che, mascherati, vanno con passo spedito, attenti a non oltrepassare il “metro”, attenti a scorgere un piccolo segno di malessere, una tosse, nell’altro che si avvicina. Eppure, uno strano senso di comunità ci pervade tutti, soprattutto quando, dall’esilio dorato delle mura domestiche, possiamo condividere esperienze comuni con l’altro sconosciuto, nella forma di un lenzuolo appeso, di una musica condivisa, di una luce unica fatta di tante piccole luci che da tanti balconi vicini illumina l’universo.

Siamo costretti dalla realtà di un ultramicroscopico essere della natura terrena a riscoprire il valore della comunità, della socialità, dello stare assieme, del cenare insieme, dell’abbraccio e del bacio, della gratuità della condivisione anche fisica. Pur sembrandoci ancora che lo stiamo facendo nel segno del “si salvi chi può”. Siamo chiamati a sganciarci sempre più dalla idea istintiva e primordiale della esclusiva e prioritaria salvezza di noi stessi per realizzare con sempre maggiore consapevolezza la salvezza degli altri.

La mascherina che oggi prudentemente indossiamo è metafora calzante in tal senso: ci sembra di indossarla per proteggere noi stessi, ma in realtà, e ci viene detto in ogni modo, serve in primo luogo per proteggere gli altri, per motivi appartenenti semplicemente al mondo della fisica. Dunque, stiamo scoprendo lentamente, gradualmente, che è solo proteggendo e curando la sicurezza dell’altro, stando attenti al bene e al benessere dell’altro, che riusciremo con efficacia a curare e proteggere noi stessi. La nostra vita, la nostra salute non è nel chiuso della nostra casa, e lo comprendiamo ora che siamo costretti a ciò. Il nostro bene, il nostro futuro è nella realtà della socialità, della prossimità e della cura fraterna: proteggendo l’altro uomo proteggo me stesso, facendo vivere l’altro faccio vivere me stesso. È questo, a mio avviso, il più grande e vero insegnamento che possiamo trarre da tutta questa storia.

Oggi, il creato, la madre terra, ci sta reinsegnando a vivere da uomini veri in compagnia di altri uomini, secondo una rinnovata umanità, anche se ancora non lo capiamo, anche se ancora resistiamo, anche se ancora ci sembra di volerci interessare solo di noi. Stiamo scoprendo, da uomini e donne messi a nudo, in difficoltà e in grave imbarazzo, che da soli non possiamo nulla, che abbiamo bisogno degli altri uomini e delle altre donne i quali, dalla stessa condizione di nudità, di autenticità, non desiderano diversamente da noi.

Rispettiamo la distanza di un metro, ma nel segreto proviamo l’inconfessabile nostalgia del semplice e gentile scusarsi per aver involontariamente sfiorato o toccato un altro davanti alla cassa del panificio. Stiamo ognuno nei pochi metri del proprio balcone, condividendo sguardi semplici e affettuosi con i vicini, fatti di uno strano e bel sentimento nuovo, ricordando con rimpianto quando salivamo tutti insieme in ascensore senza neanche scambiarci un sorriso per imbarazzo, per disagio. Stiamo lontani gli uni dagli altri, ma con la voglia impellente di abbracciarci tutti.

Costretto a vivere come una monade, come un corpo isolato, cresce smisuratamente e ogni giorno di più in me la necessità della comunione: cresce in me un senso nuovo di appartenenza, di comunità, di vita che non può essere vissuta altro che insieme. Lo stesso sentire che mi sembra di avvertire anche nello sguardo timido dell’altro che mi viene incontro ma che poi, all’ultimo momento, cambia strada per sicurezza. E questo aumenta la mia capacità empatica, il mio sentire con tutti questi uomini e donne che, da soli, stanno combattendo una guerra inedita, mai vista. E questo aumenta la mia compassione per l’uomo che scopro essere solo, sempre più solo.

E tutto questo, come sempre, come da una vita ormai, continuo a metterlo nelle mani del Signore, attraverso una preghiera che scopro sempre più essere sostanza fatta di relazione viva con Chi sa ascoltare con pazienza e fedeltà. Una preghiera che vorrebbe anticipare il domani in cui saremo fuori pericolo; una preghiera che aumenta e cresce sempre più in me, con l’unica intenzione presentata al Signore: fa che in tutto questo riusciamo a scovare il senso, fa che sappiamo riconoscere anche in questa tragica realtà del tempo attuale un seme di vita, il seme della fraternità e della felicità condivisa.
18 Marzo 2020

Giovanni Farro

Cure palliative pediatriche: riflessioni al tempo
della pandemia da SARS-CoV-2

Si stima che nel mondo più di 20 milioni di bambini siano eleggibili alle cure palliative pediatriche (CPP), un numero certamente rilevante e in lento progressivo incremento.

Sono neonati/bambini/ragazzi con patologie complesse e senza possibilità di guarigione, con insufficienze d’organo multiple, frequentemente con problemi di tipo cognitivo e/o neuromotorio, la cui vita dipende molto spesso dalle ‘macchine’ cui sono collegati e con un rischio di aggravamento e di morte reale e quotidiano. Questi neonati/bambini/ragazzi presentano necessità assistenziali peculiari, complesse, spesso integrate, multispecialistiche ed interistituzionali, che si inquadrano nell’ambito delle CPP, dove l’obiettivo di cura non è più rivolto alla guarigione, ma al ‘massimo di salute’ e di ‘qualità di vita’ possibile, pur nella malattia.

Come vivono oggi, nel tempo della pandemia da SARS-CoV-2 questi ragazzi e queste famiglie?

L’infezione può rappresentare, per questi bambini e le loro famiglie, una ulteriore criticità sia per l’impatto ancora più invalidante che potrebbe avere sul piccolo paziente, data la complessità della situazione clinica di base, sia per la numerosità di persone e quindi di contatti stretti, che inderogabilmente bambino e famiglia necessitano per la gestione routinaria dei lori bisogni.

Non vi sono dati a riguardo in letteratura ma solo pensieri, ipotesi, riflessioni originate dai dati dell’adulto.

Paura... incertezza... solitudine... assenza di terapia certa... Queste sono le emozioni che tutti condividiamo in questo periodo così difficile e complicato di pandemia, dove morte e sofferenza sono drammaticamente evidenti, descritte e proclamate ogni giorno in termini numerici e di speranze fallite.

Come palliativista pediatra che lavora in una area dell’Italia dove l’infezione è drammaticamente diffusa, mi trovo a riflettere come nel mio lavoro mi confronto routinariamente, giornalmente, con situazioni dove paura, incertezza, solitudine, assenza di terapia certa sono purtroppo la “normalità” per bambini e famiglie.

Forse questo momento di pandemia ci ha portato tutti a vivere un po’ come i bambini con malattia inguaribile e le loro famiglie vivono ogni giorno?

Andando nelle case dei pazienti una frase frequente è: “per noi in realtà è cambiato poco... noi normalmente usciamo poco e molto spesso siamo soli, abbiamo un futuro che non possiamo e talvolta nemmeno vogliamo prevedere ed abbiamo la sola certezza che la medicina non ha possibilità di offrire a nostro figlio la guarigione”.

È come il mondo alla rovescia: la tranquillità e la “normalità” che si vivono talvolta entrando in queste case sono oramai perse al di fuori... L’organizzazione familiare è perfetta, rodata da tempo, le relazioni stabili nella loro routine e non esasperate da quanto si sente né da quanto si ascolta.

Per gli operatori è un ritorno alla “normalità”.

C’è una sola paura in più… che si possa ammalare qualcuno che in questa organizzazione ha un ruolo nella cura/assistenza/relazione con il proprio bambino: questo porterebbe alla nuova sofferta e pericolosa necessità di riassestare il sistema famiglia a livelli ancora più critici e nuovi.

Se paura di morte c’è, è declinata soprattutto alla paura della perdita di chi curerà/gestirà/cullerà il proprio bambino, “chi se ne prenderà cura?”.

È la stessa paura dei ragazzi dipendenti dalle macchine, dove la dipendenza assoluta dal genitore/care giver innesca il timore drammatico della perdita di chi lo gestisce, di chi lo fa vivere e, quindi, accanto alla paura della perdita di una persona cara e insostituibile si insinua anche la pura della propria morte.

In questi giorni si sente parlare, anche in luoghi precedentemente insperati, di necessità di scelta in ambito medico: come si può e si deve affrontare una situazione difficile, una richiesta importante di intervento con risorse limitate?

Ed ecco un’altra paura di genitori e ragazzi in CPP. Sono i ragazzi/bambini già con malattie complesse e inguaribili le persone per le quali non “vale la pena” di combattere e allocare risorse in caso di infezione pandemica?

È un timore reale, tangibile, è forse la paura più grande, quella di non “contare” a sufficienza, di avere meno diritti e possibilità di aiuto e di vita.

E questo ci deve far riflettere molto.