La negazione di realtà sgradevoli

La “caparbietà convinta” di Manzoni e la “malafede” di Sartre
aiutano a leggere alcune reazioni a difficoltà sollevate dal COVID-19

MAURIZIO MORI

Cattedra di Filosofia morale e bioetica, Università di Torino.

Accettato e pervenuto il 6 maggio 2020.

Riassunto. Almeno in certi luoghi e in un dato momento la Covid-19 ha reso necessaria la pratica del triage, e forse verrà a modificare in modo permanente lo “spazio espirativo” così da mutare la socialità umana. Queste due realtà sgradevoli sono oggetto di negazione: la prima è stata negata con modalità simili a quelle che hanno portato alla negazione della peste studiata da Manzoni. L’altra con modalità che rimandano alla malafede di Sartre, che porta ad accantonare il problema.

Parole chiave. Pandemia COVID-19, triage, humanities.

The denial of unpleasant realities. Manzoni’s “convinced stubbornness” and Sartre’s “bad faith” try to read some reactions to difficulties raised by COVID-19.

Summary. At least in certain places and at a given moment Covid-19 has made the practice of triage necessary, and perhaps it will be permanently modified in the “expiratory space” so as to change human sociality. These two realities are the object of denial: the first has been denied in ways similar to those that led to the denial of the plague studied by Manzoni. The other in ways that refer to Sartre’s underworld, which leads to shelve the problem.

Key words. Pandemic COVID-19, triage, humanities.

Introduzione: la pandemia COVID-19, Raccomandazioni SIAARTI
e i problemi in campo

La pandemia COVID-19 è una realtà sgradevole e tragica che ha posto e sta ponendo enormi problemi: è ormai chiaro che essa segna una nuova tappa per l’umanità. È la prima volta nella storia che a tutti è noto che più di metà mondo è fermo o lockdown. Mai prima era capitato qualcosa di simile, non fosse altro perché non c’erano i mezzi di comunicazione capaci di trasmettere l’informazione. In questa situazione del tutto nuova può essere interessante soffermare la nostra attenzione su alcune nostre reazioni a una realtà sgradevole e in particolare sulla tendenza a negarla o a non volerla vedere.

Tra le tante modalità, due sono i tipi di negazione di realtà che intendo esaminare, facendo riferimento alle analisi di Alessandro Manzoni, che ha studiato come la “caparbietà convinta” abbia portato alla negazione della realtà della peste a Milano del 1630; e a quelle di Jean-Paul Sartre, che ha approfondito come la mavaise foi, “malafede”, come forma di “menzogna a sé stessi”, porti a negare per altra via una realtà che ci risulta sgradevole. Poter contare su modelli già collaudati facilita il compito, perché avere una buona teoria è come avere un cannocchiale che allarga la visione e ci consente di scorgere aspetti della realtà che altrimenti non sarebbero visibili.

La prima di queste realtà sgradevoli è la pratica del triage, o scelta del paziente da curare quando non si può farlo per tutti. In Lombardia, nel quadrilatero Lodi, Bergamo, Brescia, Cremona si è fatto triage almeno dal 5 al 25 marzo 2020, dal momento che per ogni letto di rianimazione disponibile c’erano come minimo dieci pretendenti se non più. Il 6 marzo 2020 sono state pubblicate le Raccomandazioni SIAARTI, che hanno chiarito i criteri di scelta e fornito quindici indicazioni concrete su come attuare il triage in quelle condizioni eccezionali.

La stessa uscita delle Raccomandazioni è stata subito aspramente criticata: si è detto che mai avrebbero dovuto essere pubblicate, e che la loro diffusione al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori è stato un atto di grave scorrettezza, una violazione del primo compito del medico, che è rassicurare i pazienti e non creare scompiglio e allarme. Invece di ammettere il triage e dare raccomandazioni su come farlo, la SIAARTI avrebbe dovuto rassicurare dicendo che nessuno è mai lasciato senza le cure appropriate e che mai si operano scelte o si fa triage.

Questa iniziale critica è presto svanita, e quasi subito è stata riconosciuta la legittimità della pubblicazione delle Raccomandazioni SIAARTI, che sono però state criticate per avere ammesso che la scelta di chi curare o no va fatta in base a criteri clinici e anche a criteri extra-clinici come per esempio quelli di giustizia distributiva riguardanti l’equa allocazione delle risorse. In questo impianto l’età è a volte fattore clinico e altre è fattore extra-clinico, a seconda delle circostanze, non vale il first come, first served, e sono poi state individuate quindici norme specifiche per regolare la situazione. Contro la prospettiva SIAARTI si è espresso il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), per il quale l’unico criterio eticamente accettabile è quello clinico da applicare direttamente a ciascun singolo caso, senza norme intermedie. Emerge così che il riconoscere o no fattori extra-clinici nella scelta di chi ammettere alle cure costituisce la linea di demarcazione tra opposti paradigmi, è cioè qualcosa di analogo al riconoscere o no che la Terra giri attorno al Sole o viceversa: scelta che porta alla negazione di alcune realtà.

La seconda realtà sgradevole posta dalla COVID-19 riguarda il futuro. Come sarà la vita sociale tra qualche mese o anno? Tutto tornerà come prima oppure no? Torneremo a teatro, al cinema, in metropolitana, in spiaggia, ecc., o ci saranno cambiamenti permanenti, e quali? Ci si lamenta che i programmi di riapertura sono incerti e poco precisi, e che ci vorrebbe maggiore determinazione. Come mai tanta incertezza? È chiaro che non possiamo continuare a rimanere chiusi in casa, e che vanno riaperte le attività produttive, ricreative, istituzionali, di trasporto, ecc., ma mancano le conoscenze adeguate per garantire la sicurezza. Non si sa se chi già ha incontrato il virus ne sia immune o no, per quanto tempo, se nell’estate il virus sarà o no meno aggressivo, quanta forza manterrà nelle prossime ondate, quanti casi di ritorno ci si deve attendere, ecc. Soprattutto, non sappiamo né se si riuscirà a debellarlo (col vaccino) né come ci si possa convivere.

Conosciamo invece due cose: che il virus è molto contagioso e anche letale, e che la sua trasmissione è connessa con la respirazione, normale processo fisiologico. Per contrastare il contagio, per ora, non ci resta che il distanziamento sociale, pratica che modifica la “densità”, aspetto su cui abbiamo parametrato le strutture base della nostra socialità: abitazioni, teatri, templi, stadi, mezzi di trasporto, ecc. Il virus ha modificato lo “spazio espirativo”, creando esigenze nuove che impongono una ristrutturazione dei tradizionali assetti sociali, che vanno ripensati. L’altro, il vicino di casa, di viaggio sul treno, ecc., sinora è stato visto con favore o comunque in modo neutro, mentre ora diventa potenzialmente pericoloso, e anche mortifero, da avvicinare solo con precauzioni e mediazioni appropriate (mascherine, ecc.). Aumenta, quindi, la diffidenza verso l’altro, che diventa strutturale e quasi fisiologica. Cambierà un aspetto della socialità umana? Che effetti avrà sugli assetti sociali? Si modificheranno gli spazi, le modalità produttive, di trasporto, di svago, ecc.? E come sarà l’economia? Questa continuerà a essere grosso modo come oggi, o cambierà radicalmente? E in che direzione? Si rafforzerà il neo-liberismo o interverranno forme nuove di socializzazione per garantire un uguale livello di sussistenza?

Sono problemi che in un senso affascinano e in altro sgomentano. L’incertezza del futuro e la scarsa prevedibilità sono realtà sgradevoli a cui preferiamo evitare di pensare e procedere a una negazione di realtà di tipo diverso dal precedente. Passo ad approfondire le due diverse patologie.

Manzoni: la “caparbietà convinta”
nega la realtà sgradevole attraverso le parole

Nel capitolo 31 de I promessi sposi Alessandro Manzoni esamina come “la peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero”. L’obiettivo di Manzoni è non solo “di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi [Renzo e Lucia]; ma di far conoscere insieme, [...] un tratto di storia patria più famoso che conosciuto”. Osserva Manzoni come ci fosse “una strana confusione di tempi e di cose” nelle cronache e storie di allora, e era interessato a fare chiarezza avendo scoperto una importante lettera del tribunale della sanità che consentiva di gettare luce sulla questione degli untori (al tempo oggetto di attenzione, che qui non possiamo approfondire).

Circa l’ingresso della peste in Milano, osserva Manzoni, le cose andarono così: il grande medico Lodovico Settala, che già aveva visto e combattuto la “peste di san Carlo” cinquantatre anni prima, il ٢٠ ottobre ١٦٢٩ riferì al tribunale della sanità di Milano che vicino a Lecco “era scoppiato indubitabilmente il contagio”. Ciononostante, “non fu per questo presa veruna risoluzione”, ma al sopraggiungere di altri “avvisi somiglianti” il tribunale della sanità mandò un commissario “a visitare i luoghi indicati”. Costui si fece accompagnare da un medico di Como e “tutt’e due, «o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste»; ma effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi o «de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni»”. Ciò bastò a far sì che il tribunale della sanità “ne mettesse il cuore in pace”.

Altre notizie allarmanti, tuttavia, arrivarono presto, e allora “furono spediti due delegati a vedere e a provvedere”: questi riferirono che il “numero de’ morti era spaventevole” e “trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d’ottobre” [1629] prese subito misure drastiche, chiudendo subito “fuori dalla Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s’era manifestato”.

Fin qui, erano state fatte alcune leggerezze, ma la situazione era ancora in equilibrio e avrebbe potuto volgere al meglio: i delegati “se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso”, ma pareva anche che i medici fossero ben determinati a prendere con prontezza e rigore le adeguate contromisure. Arrivati a Milano il 14 novembre, i delegati diedero “ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto”, e andarono subito a riferire dal Governatore che, pur essendo molto rattristato della notizia, aveva “i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas”. Così “due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV [...] come se non gli fosse stato parlato di nulla”. Osserva Manzoni che questo “spregio” fu all’origine dei “disgusti d’ogni genere” verso il Governatore, Ambrogio Spinola, che pochi mesi dopo morì solo e disprezzato da tutti.

Nonostante restasse “intero il biasimo” per il Governatore, Manzoni continua osservando che c’era un aspetto che diminuiva “la maraviglia di quella sua condotta” e che “fa nascere un’altra e più forte maraviglia” circa la “condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo”. All’arrivo di notizie mediche così gravi come quelle sopra riportate, chiede Manzoni “chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato”.

In breve, Manzoni rileva che la gente, la politica e i magistrati, senza alcuna ragione, negavano bellamente la realtà della peste che era stata riconosciuta dagli esperti, i quali venivano ridicolizzati e sbeffeggiati: “chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo”. C’erano ovviamente eccezioni, come il cardinal Federigo, che subito scrisse una lettera pastorale ai parroci imponendo di consegnare le cose infette; ma la stessa classe medica era divisa: “Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza”. Per questo, e forse “per ostacoli frapposti da magistrati superiori”, la decisione di chiudere Milano fu presa “il 30 d’ottobre [1629], non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29 [novembre]. La peste era già entrata in Milano”.

Consapevole della netta negazione della realtà della peste, Manzoni si è messo a studiare come la “medesima miscredenza” o meglio la medesima “cecità e fissazione” avesse potuto mantenersi nel popolo, nella politica, nei magistrati e anche in molti medici, e quali effetti ciò avesse prodotto. Ha così individuato quattro passi, il primo dei quali continua il precedente iniziale atteggiamento di negazione della peste. Riconosciuto il problema, si è subito andati alla ricerca di chi avesse portato la peste (il paziente zero). Questi fu subito individuato in “un soldato italiano al servizio di Spagna”, che immediatamente fu segregato in casa e “i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati”. Morto lui e chi l’aveva assistito ci si illuse, “che il contagio non vi si propagasse di più”. Incredibilmente, ciò fece dimenticare che quanto già “era stato disseminato [...] non tardò a germogliare”, e fece sottovalutare il nuovo contagio che entrava in città “per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli”. Così, il male “andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente 1630”. È vero che “di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, nè ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli auguri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso”.

Il fatto che si continuasse a deridere e sbeffeggiare chi ipotizzava la peste rivela quanto perseverasse la negazione della realtà anche dopo la morte del paziente zero. La peste, però, era ormai in città e dava chiari segnali di sé: se fosse stata subito riconosciuta, forse avrebbe ancora potuto essere arginata. Ma a questo punto la medesima “cecità e fissazione” ha fatto compiere il secondo passo, consistente nell’usare “nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste”. La realtà della peste viene negata e nascosta attraverso nomi diversi: mossa che ebbe, continua Manzoni, un effetto disastroso e devastante, perché le misure drastiche messe in atto dal tribunale di sanità per contrastare quell’“orribile flagello”, furono viste dalla gente comune come “vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala [...] che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi”. Così, proprio quei medici che per primi avevano prontamente riconosciuto la peste furono dichiarati “nemici della patria: pro patriae hostibus”, e lo stesso Settala fu oggetto di un agguato. Parte di quell’odio si riversava anche sugli “altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento”.

Grazie al ricorso “nomi di malattie comuni” il negazionismo si è rafforzato, e questo ha favorito la diffusione della peste in Milano. “Ma sul finire del mese di marzo [1630], cominciarono, [...] in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti [...]. I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto” (corsivo aggiunto).

Non potendo più negare l’evidenza della peste, si è fatto così un terzo passo consistente nel trovare nuovi nomi al male grazie ai quali riconoscere una parte di realtà per tenerne nascosto l’aspetto più importante, ossia “che il male s’attaccava per mezzo del contatto”. Per cercare di arginare l’immane tragedia, “i magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi [...] della sanità, a far eseguire i suoi editti”. Fu allestito un lazzaretto e furono chiamati a curarlo i cappuccini con a capo padre Felice Casati, che “prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima. I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza”. In sette mesi nel lazzaretto passarono cinquantamila persone, per cui, conclude Manzoni, “l’opera e il cuore di que’ frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa”.

A primavera 1630 avanzata “anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, [...] e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra’ poveri, cominciò a toccar persone più conosciute”. Allora come oggi, la morte di persone note e famose favoriva il riconoscimento della realtà, e il Tadino scriveva: “Questi casi, [...] occorsi nella Città in case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia”.

Neanche quest’aspetto, però, continua Manzoni, è bastato a far riconoscere la realtà, perché a volte la “caparbietà convinta” trova ripieghi e espedienti per soddisfare il desiderio o il puntiglio di rimanere “ferma e invitta, fino all’ultimo, contro la ragione e l’evidenza”. Coloro che si erano opposti “così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que’ mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand’inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo”.

Si è compiuto così un quarto passo per continuare a negare la realtà: la peste era ormai innegabile, ma si è detto che la sua diffusione era dovuta non a “mezzi naturali” ma a “qualche altra causa” con la disponibilità “a menar buona qualunque ne venisse in campo”, e “per disgrazia, ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe”. D’altronde, “fin dall’anno antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch’erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi”. Al momento a quel dispaccio “non ci si era badato più che tanto”. Ora, “però, scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti quell’avviso poté servir di conferma al sospetto indeterminato d’una frode scellerata; poté anche essere la prima occasione di farlo nascere”.

Due fatti trasformarono di colpo quel “sospetto indeterminato d’un attentato possibile” in “certezza, d’un attentato positivo, e d’una trama reale”. Manzoni ha dedicato particolare attenzione a questi fatti sia per il loro intrinseco interesse teorico (è il problema degli untori), sia perché aveva scoperto una inedita lettera ufficiale del tribunale della sanità al Governatore che chiariva bene come fossero andate le cose. Il primo fatto, “di cieca e indisciplinata paura”, capitò la sera del 17 maggio quando “era parso di vedere” che alcuni avessero unto “un assito che serviva a dividere gli spazi a’ due sessi” nel duomo di Milano. Subito furono portati fuori “l’assito e una quantità di panche”, arrivò “Il presidente della sanità” e altri quattro funzionari che però non trovarono “nulla che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico”: nella lettera ufficiale citata i sanitari conclusero, “«più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno»”, che “bastava dar una lavata all’assito”. Nonostante questa rassicurazione “quel volume di roba accatastata produsse una grand’impressione di spavento nella moltitudine”, e si disse che all’interno tutto era stato unto, “e fin le corde delle campane”: fatto riportato in tutte le cronache, ma non nella lettera ufficiale sopra citata.

L’altro fatto, “nuovo e più strano”, accadde il mattino seguente, quando i cittadini “in ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne”. Non si sa se “sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione”, ma della cosa ne parla sia il Ripamonti; sia la lettera ufficiale citata che dice d’aver fatto esperimenti coi cani per concludere “«che cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato»”; sia altre cronache contemporanee che raccontano essere stata “opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria”. In seguito, però, l’idea dell’unzione si è ingigantita al punto da portare al “celebre delirio”, quello degli untori.

Dopo i due fatti citati, “la città già agitata ne fu sottosopra”: la gente si mise a bruciare le parti unte, e a portare alla giustizia i forestieri sospettati di essere untori, che furono interrogati, e “non si trovò reo nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare, d’esaminare, d’intendere”. Non avendo trovato alcun colpevole, nella già citata lettera ufficiale datata 21 maggio, ma scritta il 19, il tribunale della sanità afferma che sarebbe stata emessa una grida perché “«Ad ogni modo non parendoci conueniente, [...] che questo delitto in qualsiuoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatione e quiete di questo Popolo»”. Nella grida pubblicata non si fa, “però, nessun cenno, almen chiaro, di quella ragionevole e acquietante congettura”: non si dice cioè né che non c’erano untori di sorta, né che si emanava la grida solo “«per consolatione e quiete di questo Popolo»”. Silenzio, conclude Manzoni, che rivela “una preoccupazione furiosa nel popolo” che è stata purtroppo assecondata, creando le premesse per il successivo disastro (la caccia agli untori).

L’omertoso silenzio mantenuto nella grida consentì il quarto passo della negazione di realtà: la peste c’era ma era dovuta non a una causa naturale (il contagio) ma a “qualche altra causa”, l’untore. “Mentre il tribunale cercava [le cause possibili della peste], molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato” e c’era chi credeva “esser quella un’unzione velenosa”, e chi “fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl’insulti ricevuti nella sua partenza”, e via dicendo con le ipotesi più bizzarre. “C’era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse”, perché “«si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali»” se fosse stata “«vera peste [...] tutti sarebbero morti»” (Tadino).

Per fugare “ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi”. In una delle feste della Pentecoste, “nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi” per ordine della Sanità furono fatti passare i cadaveri di una famiglia intera “sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla”.

Arrivati a riconoscere la realtà della peste, Manzoni ha chiuso la trattazione con una frase giustamente diventata celebre con cui compendiare i quattro passi sopra illustrati: “In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”.

E di seguito: “Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte [idee e parole] hanno fatto un simil corso”, anche se non sono state molte quelle che hanno avuto tanta importanza. Tuttavia, “tanto nelle cose piccole, come nelle grandi” si potrebbe evitare quel tragitto “così lungo e così storto” assumendo il metodo “d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire”.

Gli studiosi manzoniani (cfr, per tutti, il commento di Secchi) di solito hanno letto quest’ultima proposizione come un giudizio moraleggiante di carattere generale sulla fragilità umana. La lettura qui proposta la intende, invece, come un invito al rigore e alla precisione linguistica. Manzoni, grande romanziere diventa qui filosofo analitico che fa filosofia del linguaggio: noi umani siamo un po’ da compatire perché non riusciamo a essere rigorosi e precisi coi termini, e sviamo i concetti con una trufferia di parole. Quest’interpretazione “analitica” di Manzoni mi consente di commentare i quattro passi individuati andando ben al di là della specifica negazione di realtà della peste, perché l’analisi svolta coglie un tratto strutturale al riguardo. Infatti, di fronte a realtà sgradevoli spesso il primo passo è:

1. si nega la realtà stessa, rifiutando persino di pronunciare la parola: “proibito anche di proferire il vocabolo”. Anche oggi, oggi, all’inizio le Raccomandazioni SIAARTI sono state duramente criticate per aver nominato il termine “triage” e ammesso la pratica, in spregio del ruolo medico tradizionale che ingiunge di rassicurare tutti e sempre. Questo primo passo suppone una qualche forma di realismo in cui la parola evoca la realtà, per cui basta non pronunciare il nome per annullare la corrispondente realtà sgradevole. Purtroppo, questa strategia non basta, e Manzoni ha rilevato un secondo passo:

2. si comincia a ammettere l’idea di realtà della peste “per isbieco in un aggettivo” che allarga e modifica il significato del sostantivo: è (normale) “febbre” ma “pestilenziale”. Oggi, in modo un po’ diverso, il Parere CNB riconosce che è triage, ma “in emergenza pandemica”, cioè di tipo speciale da chiarire. Come osservato da Manzoni, neanche questo modo di qualificare “per isbieco in un aggettivo” riesce a chiarire la situazione, e allora si procede a un terzo passo, quello con cui

3. si introducono giri di parole grazie ai quali dire che è “peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio”. Di solito si usano aggettivi come “vero”, “autentico”, “profondo”, “unico” per lasciar intendere che ci sarebbe una presunta realtà più solida che non verrebbe colta dalle parole usate, la cui individuazione richiede perifrasi perché “non si sa trovare un altro nome”. Oggi, il Parere del CNB riconosce che purtroppo è triage, ma in un certo senso; non triage proprio. Infatti, vanno rispettate alcune condizioni e va fatto sulla scorta del solo criterio clinico applicato direttamente a ciascun singolo caso, senza norme intermedie. Tali precisazioni rivelano che il triage “speciale” consentito non si discosta troppo da una scelta scrupolosa di cure appropriate fatta dal medico in “scienza e coscienza”. Questo perché il tragitto dal principio generale al caso singolo è così lungo e complesso che, senza norme intermedie, il giudizio finale è grosso modo equivalente a quello in “scienza e coscienza”. Fino a questo punto l’analisi del Manzoni ci aiuta a esaminare come sia avvenuta la negazione di realtà sgradevole del triage. Manzoni ha però considerato una realtà più ampia che riguarda il riconoscimento della pandemia nel complesso: al riguardo dopo tentennamenti resta un ultimo passo, perché, dopo i tentenamenti descritti, resta

4. dopo aver a lungo e tenacemente negato la peste, non si può far altro che riconoscerla: “peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, […] la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”. Nel ’600 per trovare quell’idea bisognava guardare “nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d’Europa”, in cui “per disgrazia, ce n’era una in pronto […]: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe”. Oggi, invece, di venefizio e di malefizio si parla di complotto, così che il virus sarebbe stato creato in un laboratorio segreto e diffuso o per dolo o per errore. Come allora un dispaccio dell’anno antecedente “sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore” confermava l’ipotesi che quattro francesi erano scappati da Madrid “sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi”, così oggi si scopre che rapporti o inchieste di qualche anno fa corroborerebbero l’idea del complotto: lo stesso Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha sostenuto la tesi e dato l’incarico all’intelligence di fare verifiche circa l’origine della pandemia.

L’analisi di Manzoni ci ha consentito di capire meglio alcuni meccanismi di negazione di realtà che si sono puntualmente ripetuti oggi a fronte di realtà sgradevoli connesse al Covid-19.

Sartre: la malafede (mavoise foi)
nega la realtà sgradevole attraverso una sorta di “menzogna a sé” che rimanda
la scelta e allontana l’impegno

L’altra grande realtà sgradevole generata dalla COVID-19 riguarda il futuro. Data l’incertezza circa il mondo di domani, pare si proceda con un’altra forma di negazione della realtà che è stata studiata da Jean-Paul Sarte con il nome di “malafede”.

Nel linguaggio ordinario, la malafede indica una forma di menzogna, e chi è in malafede è colui che vuole consapevolmente far supporre o far accogliere a altri come veri fatti che sa non essere tali, al fine di raggiungere un proprio obiettivo diverso da quelli dichiarati, oppure chi agisce in modo formalmente corretto, ma maschera agli altri gli obiettivi realmente perseguiti. L’idea di fondo propria del significato ordinario è che la malafede è l’atteggiamento teso a far credere o a far fare a un altro cose che non corrispondono alla realtà, sapendolo perfettamente.

Anche Sartre esamina la nozione di malafede confrontandola con quella di menzogna, ossia l’atto con cui si altera o si falsifica la verità con piena consapevolezza: “l’essenza della menzogna implica che il mentitore sia completamente cosciente della verità che maschera. Non si mente su ciò che si ignora, non si mente quando si diffonde un errore di cui si è vittima noi stessi, non si mente quando ci si inganna. L’ideale del mentitore è dunque una coscienza cinica, che afferma dentro di sé la verità, la nega nelle parole, e nega per se-stessa questa negazione” (87). In questo senso, “con la menzogna, la coscienza afferma di esistere per natura come nascosta ad altri, di utilizzare a profitto proprio la dualità ontologica dell’io e dell’io d’altri” (88).

Da quanto detto si evince che la menzogna ha tre presupposti:

1. che si conosca la verità e se ne sia consapevoli;

2. che si voglia consapevolmente nascondere tale verità a un altro;

3. che con “coscienza cinica” si sfrutti la “dualità ontologica dell’io e dell’io d’altri” per far credere cose false all’altro e far fare all’altro le corrispondenti azioni fuori luogo.

Sartre osserva che la malafede ha “in apparenza la struttura della menzogna” perché “per chi pratica la malafede, si tratta proprio di mascherare una verità spiacevole o di presentare come verità un errore piacevole” (88). Ma “nella malafede è a me stesso che io maschero la verità. Così, la dualità dell’ingannatore e dell’ingannato non esiste più qui. Al contrario, la malafede implica per essenza l’unità di una coscienza” (88). La malafede sartriana si distingue radicalmente dalla menzogna perché in quest’ultima è a un altro che si mente (assunto 2.), e non può essere “propriamente menzogna a sé”. Già questo fatto distingue il senso tecnico sartriano di malafede dal significato ordinario, perché non è facile capire come si possa “mentire a sé”.

Ma Sartre continua l’analisi presentando un esempio: “una donna che si è recata al primo appuntamento. Sa benissimo le intenzioni che l’uomo che le parla nutre a suo riguardo. Sa anche che le occorrerà prendere, presto o tardi, una decisione. Ma non vuole sentirne l’urgenza; si attacca solo a ciò che di rispettoso e discreto offre l’atteggiamento del compagno. Non percepisce tale comportamento come un tentativo per realizzare quelli che si chiamano «i primi approcci», non vuol vedere le possibilità di sviluppo nel tempo di tale condotta; circoscrive il comportamento a ciò che è al presente, non vuole leggere nelle parole indirizzatele altro che il loro senso esplicito” (95).

Come si vede, qui la malafede consiste nel mascherare la realtà a sé stessi ponendola nella penombra, nel non voler percepire i tentativi fatti dall’uomo e nel non voler “vedere le possibilità di sviluppo”, pur sapendo che arriverà il momento. Non solo è venuto meno l’altro cui è indirizzata la menzogna (l’assunto 2.), ma ora viene meno anche la consapevolezza della verità (assunto 1.). Quest’aspetto diventa ancora più chiaro poco dopo, quando avviene la svolta: “Ma ecco che le si prende la mano. L’atto dell’interlocutore rischia di cambiare la situazione imponendo una decisione immediata; abbandonare la mano alla stretta, è consentire da parte sua al flirt, impegnarsi. Ritirarla, è rompere l’armonia torbida ed instabile che fa l’incanto dell’ora. Si tratta di rimandare il più lontano possibile l’ora della decisione. Si sa allora quel che succede; la giovane donna abbandona la mano, ma non si accorge di abbandonarla. Non s’accorge perché, per caso, avviene che ella è, in quel momento, tutta spirito. […] Diremo che questa donna è in malafede” (96). Nella malafede, quindi, manca anche la consapevolezza della verità, e quella penombra, che all’inizio mascherava la realtà consentendo alla donna di vivere l’incanto dell’ora e di non vedere le “possibilità di sviluppo”, ora si rafforza e si inspessisce così che dopo l’avance la “giovane donna abbandona la mano, ma non si accorge di abbandonarla”, perché in quel momento è tutta spirito.

Si passa così a un’altra caratteristica della malafede: l’assenza (o il venir meno) della consapevolezza della verità (no all’assunto 1.) rivela che la malafede è qualcosa che “non viene dal di fuori alla realtà umana. Non si subisce la propria malafede” (88), ma essa è frutto di un’interna intenzione primitiva. Mentre la menzogna è rivolta all’esterno, a far sì che l’altro creda cose che si sanno essere false o che compia atti che si sa essere fuori luogo, la malafede è rivolta all’interno di sé e la giovane donna non presenta “cinica menzogna né sapiente preparazione di concetti ingannatori. Ma il primo atto di malafede è (posto) per fuggire ciò che non si può fuggire, fuggire ciò che si è. Ora, lo stesso piano di fuga rivela alla malafede un’intima disgregazione in seno all’essere, ed essa [la malafede] vuole essere proprio questa disgregazione” (113).

Ciò significa che nella malafede manca anche l’assunto 3. proprio della menzogna, e ciò fa emergere un’altra differenza tra le due: non solo la malafede è qualcosa di interno, ma essa ci porta a mettere nella penombra la realtà nascondendola a noi stessi per evitarci di assumere un impegno al riguardo, così da portarci a venir meno a noi stessi e all’impegno dovuto nei confronti del reale. Quando facciamo questo siamo come avvolti dalla malafede così che “il piano di malafede dev’essere anch’esso in malafede; io non sono in malafede soltanto al termine del mio sforzo, quando ho costruito i miei concetti anfibolici, e me ne sono persuaso. A dire il vero, io non mi sono persuaso; per quanto potevo, lo sono sempre stato. Nel momento stesso in cui mi disponevo a mettermi in malafede, dovevo già essere in malafede nei confronti di tali disposizioni. […] La decisione di essere in malafede non osa dichiararsi […] Così la malafede fin dal suo piano originario, dal suo sorgere, decide dell’esatta natura delle sue esigenze, si delinea intera nella risoluzione che prende di non chiedere troppo, di considerarsi soddisfatta quando sarà poco persuasa, di forzare la propria adesione alla verità incerta” (110-111).

La malafede è una “condizione della coscienza” (o “dell’anima”) rivolta a sé stessi: diversamente dalla menzogna, che è un atto rivolto a altri e comporta qualcosa di solido in quanto è perfettamente nota la verità che si nega consapevolmente, la malafede comporta qualcosa di fluido nel senso che ci porta a non essere mai pienamente consapevoli della verità, a non pretendere adesioni nette e a lasciare ampi margini all’incertezza, al non chiedere troppo, e anche a non esigere troppo impegno. La malafede è la condizione che ci porta a cogliere la presenza di una realtà che lasciamo indeterminata per evitare l’impegno. In questo senso, la malafede non si dichiara, è come se ci avvolgesse sin dall’inizio e decide da sé quali siano le sue esigenze: non è frutto “di una decisione riflessiva e volontaria, ma di una determinazione spontanea dell’essere. Ci si mette in malafede come ci si addormenta, e si è in malafede come si sogna. Una volta realizzato questo modo d’essere, è altrettanto difficile uscirne, come svegliarsi; gli è che la malafede è un tipo di essere nel mondo come la veglia ed il sogno, che tende per se stesso a perpetuarsi” (111).

L’analogia col sonno e col sogno rende ancor più complicata l’analisi di un testo che non sempre è di facile comprensione: in linea con le indicazioni date direi che quel richiamo sottolinea che la malafede è una condizione che ci prende o avvolge come il sonno, e ci porta a negare la realtà attraverso la creazione di sfumature e di penombre che ci consentono di ignorare il problema o far finta che non ci sia, avendo noi già deciso di non chiedere troppo e di lasciare incerta la verità senza voler chiarire bene come stanno le cose. Ecco in che senso che “la malafede è un tipo di essere nel mondo come la veglia ed il sogno” (111).

La malafede sartriana è una sorta di “menzogna a sé stessi” attraverso cui neghiamo la realtà sgradevole di un futuro incerto verso cui preferiamo non impegnarci troppo. Avvertiamo che il problema c’è e che prima o poi ci sarà da prendere una decisione, ma preferiamo stare nell’incanto dell’ora e far finta che non ci sia. Così speriamo in un vaccino che risolva le difficoltà e che riporti le lancette della storia al 2019, pur percependo che forse non arriverà tanto presto. Eppure l’idea di ristrutturare radicalmente la vita sociale è realtà così sgradevole che ci sgomenta al punto da portarci a fare come la giovane donna sopra ricordata che nega a sé stessa la verità e rimanda la decisione. Ecco perché i programmi per il futuro sono così incerti e imprecisi, e quasi mai pensiamo a scenari radicalmente diversi dal passato (come invece forse dovremmo).

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.