Nella bufera COVID-19 la nave regge
e continua la sua perigliosa navigazione

LUCIANO ORSI

Medico palliativista, Vicepresidente SICP.

Pervenuto il 15 aprile 2020.

Riassunto. Questo editoriale vuole essere una prima analisi dell’impatto che la pandemia COVID-19 ha avuto e sta avendo sulle cure palliative. Il coinvolgimento delle cure palliative è stato molto rilevante, sia direttamente nella gestione dei malati affetti da SARS-CoV-2 e dei loro familiari, sia indirettamente per i vincoli sanitari, sociali e logistici imposti dalla pandemia. In questo numero della rivista sono contenuti numerosi articoli che descrivono le esperienze di varie équipe di cure palliative del Nord Italia ove l’ondata epidemica è stata più devastante. Tali esperienze hanno permesso di acquisire molti dati sulla efficacia delle cure palliative nel controllo delle sofferenze, nel favorire la comunicazione con il malato e la famiglia pur tenendo conto dei rigidi vincoli, nel supportare il processo decisionale delle équipe curanti anche sotto il profilo etico. L’esperienza sul campo ha inoltre sollevato una serie di problemi relativi alla grande prevalenza di cure di fine vita con rallentamento delle cure palliative simultanee/precoci, alla severa limitazione dell’attività palliativa domiciliare, alla scarsa sensibilità delle istituzioni nazionali nell’attivare un sistemico coinvolgimento delle cure palliative nella risposta alla pandemia, ad una certa resistenza culturale al concetto di triage, all’uso, peraltro rivelatosi molto efficace, della tecnologia nelle comunicazioni e nelle relazioni. Un’altra serie di timori è sollevata dalle preoccupazioni circa la ripercussione che la crisi economico-finanziaria che si prospetta potrebbe avere sullo sviluppo delle cure palliative e dal numero elevato di lutti complicati che si ipotizzano, viste le peculiari condizioni di isolamento in cui sono avvenuti i decessi e i mancati rituali funebri.

Parole chiave. Pandemia COVID-19, cure palliative, controllo sintomi, comunicazione, giustizia allocativa.

In the COVID-19 storm, the ship holds and continues its perilous navigation.

Summary. This editorial is intended to be a first analysis of the impact of the COVID-19 pandemic on palliative care. The involvement of palliative care is very relevant, both directly in the management of SARS-CoV-2 patients and their families, and indirectly due to the health, social and logistical constraints imposed by the pandemic. This issue of the magazine contains numerous articles describing the experiences of various palliative care teams in Northern Italy where the epidemic has been most devastating. These experiences have allowed us to acquire many data on the effectiveness of palliative care in the control of suffering, in promoting communication with the patient and the family while taking into account the rigid constraints, in supporting the decision-making process of the treating teams also from an ethical point of view. The experience in the field has also raised a series of problems related to the large prevalence of end of life care with a slowing down of simultaneous/early palliative care, to severe home palliative care limitations, to the lack of sensitivity of national institutions in activating a systemic involvement of palliative care in response to the pandemic, to a certain cultural resistance to the concept of triage, use, however proven to be very effective, of technology in communications and relationships. Another series of fears is raised by concerns about the repercussion that the economic and financial crisis may arise could have on the development of palliative care and the high number of pathological grief that are hypothesized, given the peculiar conditions of isolation in which the deaths happened and related missed funeral rituals.

Key words. COVID-19 pandemic, palliative care, control of symptoms, communication, allocative justice.

Introduzione

Lo scoppio della pandemia COVID-19/SARS-CoV-2 ha stravolto l’indice di questo numero della Rivista Italiana di Cure Palliative come ha stravolto molti aspetti della nostra vita professionale e personale. È pertanto ovvio che questo fascicolo sia dedicato al COVID-19 e ai cambiamenti che la pandemia ha portato e porterà alle cure palliative (CP), alla medicina, al mondo della comunicazione e alla società. Con questo editoriale ci si propone di capire come si è comportata la nave delle CP in questa bufera ancora in corso e quale sarà la sua futura navigazione, ben sapendo che questo è solo l’inizio di una riflessione che durerà a lungo vista l’imponenza del fenomeno.

Che cosa è successo

In queste ultime, convulse settimane sono accaduti molti fatti, anche di grande complessità. Dal nostro punto di vista è opportuno fissarne alcuni per la loro diretta attinenza al mondo delle cure palliative.

Non ce lo aspettavamo

La pandemia è arrivata inattesa per le CP come per il resto della medicina. Siamo nati sul trattamento delle patologie oncologiche, stavamo faticosamente penetrando in quello delle patologie cronico-degenerative e, invece, siamo stati di colpo proiettati nella vorticosa cura di una malattia infettiva acuta, peraltro sconosciuta. Come d’altronde erano sconosciute ai più le CP nelle crisi umanitarie1-5, capitolo assente o poco rappresentato nei trattati di CP e letteratura poco frequentata nella nostra formazione continua perché la tematica era considerata più una curiosità dal sapore esotico che una competenza utile da acquisire. Noi palliativisti non ci aspettavamo un ritorno così impattante delle malattie acute, così come quasi nessun sistema sanitario si aspettava una impressionante mortalità per causa infettiva.

Nelle fasi iniziali le cure palliative
non sono state coinvolte a livello sistemico

L’immane sforzo compiuto per potenziare le cure, cui abbiamo assistito in queste ultime settimane, è stato a lungo esclusivamente rivolto ad aumentare i posti letto, soprattutto ma non solo, di Terapia Intensiva, convertendo interi reparti o ospedali e allestendo numerosi ospedali da campo. Obiettivi necessari ed encomiabili per poter fra fronte alla massa di malati che sommergeva le strutture di varie province italiane, soprattutto al Nord. Ma la comprensibile enfasi organizzativa e mediatica sul trattamento delle fasi acute per cercare di salvare più vite possibile ha assorbito quasi tutta l’attenzione, almeno a livello istituzionale e mediatico nazionale, impedendo di comprendere quanto sofferente fosse il processo del morire di tantissimi malati a causa dell’intenso corteo sintomatologico (dispnea e agitazione psicomotoria in primis) correlato alla COVID-19. Questo fatto ha indotto la SICP ha stilare un Position Paper6, congiuntamente con la Società Italiana di Anestesia, Analgesia e Terapia Intensiva (SIAARTI) e la Federazione Cure Palliative (FCP), per stigmatizzare l’importanza delle CP nella gestione dei malati SARS-CoV-2 cui hanno aderito numerose società scientifiche e che ha incontrato l’approvazione da parte della FNOMCeO e della FNOPI. Si auspica che tale documento contribuisca a sensibilizzare le Istituzioni nazionali e regionali circa la necessità di attivare tempestivamente le CP in tutti i livelli di programmazione e attuazione delle cure. Forse questo sforzo ha sortito un primo, importante effetto poiché il 10 aprile, nella consueta conferenza stampa delle ore 18 della Protezione Civile, il Prof. Bernabei, membro del Comitato Tecnico-Scientifico del Ministero della Salute, ha citato l’importanza di coinvolgere e potenziare le CP nell’ambito delle misure per fronteggiare l’emergenza pandemica7.

L’intenso coinvolgimento delle cure palliative a livello regionale e locale

A differenza del livello nazionale e regionale (tranne rare eccezioni), a livello locale vi è stato un rapido, intenso e duraturo coinvolgimento dei Servizi di CP nelle numerose aree geografiche ove la pandemia ha colpito più duramente. Numerosi articoli di questo fascicolo dimostrano la qualità e la forza dell’apporto che le équipe di CP hanno dato sia nella cura di malati in fase di peggioramento terminale sia in quella di malati che poi sono migliorati. La competenza palliativa nel controllo dei sintomi e nell’attenzione alla comunicazione per gestire il dolore globale ha migliorato nettamente sia la qualità di morte dei malati deceduti sia la qualità di vita di chi ha superato la fase acuta. Va sottolineato come il valore e l’efficacia delle CP sono stati conseguiti con un’ampia gamma di interventi che comprendevano: la gestione diretta di Hospice COVID o di neo-reparti “end of life”, le consulenze in presenza o in via telefonica ai reparti COVID e ai Dipartimenti di Emergenza-Urgenza, la formazione sul campo effettuata partecipando a briefing quotidiani di valutazione e triage o affiancando équipe di reparti COVID, l’inserimento di palliativisti in neo-équipe COVID.

Molto importante si è rivelata l’opera di sensibilizzazione culturale all’approccio palliativo e di supporto consulenziale e formativo che molti palliativisti avevano compiuto negli anni precedenti, soprattutto con i colleghi di area internistica, geriatrica, pneumologica, di malattie infettive e della medicina generale. Questa pregressa formazione sul campo ha permesso alle neo-équipe assemblate per l’apertura di neo-reparti COVID, di essere parzialmente indipendenti nella gestione dei malati COVID-19 o di trarre beneficio dal solo supporto consulenziale telefonico dei palliativisti che, pertanto, hanno potuto dedicarsi ai malati più gravi. Insomma, aver ben seminato in questi ultimi anni cultura palliativa in vari settori della medicina ha permesso di raccogliere frutti preziosi in un momento di grande bisogno. Il fatto che queste neo-équipe fossero costituite da personale medico, infermieristico e operatori sociosanitari provenienti dai più disparati settori ha permesso a tali professionisti di venire a contatto con problemi clinici, comunicativi, emotivi spesso poco noti o a loro sconosciuti, constatando sul campo l’efficacia delle CP.

Questo contatto, anche se avvenuto in circostanze dolorose e stressanti, potrebbe avere importanti implicazioni future per facilitare la diffusione della cultura palliativa in una più vasta platea di professionisti sanitari. Le attività svolte dalle CP italiane durante l’epidemia COVID-19 confermano pienamente le pur scarse evidenze presenti in letteratura soprattutto in riferimento a mettere in atto risposte rapide e flessibili, ad assicurare protocolli mirati al controllo dei sintomi facilmente usufruibili per sanitari non palliativisti, ad essere coinvolti nel triage, a spostare risorse palliative fra l’ambito ospedaliero e quello territoriale, e a supportare la comunicazione anche con l’uso innovativo di tecnologie8,9.

Cure palliative nei malati COVID-19

L’intenso impegno dei palliativisti è stato, come si può desumere dagli articoli di questo fascicolo che descrivono, in dettaglio o in sintesi, le numerose esperienze italiane sul campo, prevalentemente orientato alle cure di fine vita. Queste esperienze sono confermate dalla letteratura internazionale che sta lentamente emergendo8-12.

Uno dei vissuti più comuni fra le équipe che le hanno praticate è stato, accanto alla constatazione della loro efficacia anche su una patologia infettiva acuta, la sensazione di disagio di vedere prevalere, per causa di forza maggiore, le cure di fine vita su quelle simultanee/precoci che era ormai considerato uno dei gold standard della pratica palliativa. “Stiamo tornando indietro?”, “Come fare a spiegare ai neo-colleghi che queste sono solo una parte delle cure palliative?”, “Ritorna il rischio di essere visti solo come quelli che arrivano nella fase terminalissima?”; queste sono le frasi confessate a fior di labbra da chi era in trincea nei terribili giorni di marzo e aprile. Di qui la strenua volontà di precisare in modo continuo la differenza fra CP di fine vita e CP simultanee/precoci con tutti gli interlocutori incontrati sul campo.

Un altro disturbante vissuto che emerge anche dagli articoli di seguito riportati è lo squilibrio fra la parte clinico-assistenziale che è risultata spesso prevalente in queste esperienze e la parte comunicativo-relazionale delle CP che è stata messa in ombra per le oggettive condizioni operative: degenze brevi, gravità anche estrema del quadro clinico, assenza o presenza molto limitata di familiari accanto al letto, dispositivi di protezione individuali (DPI) ostacolanti. A questo si sono aggiunti altri pesanti elementi considerati snaturanti il consueto modo di condurre le assistenze palliative sia in Hospice sia a domicilio: la pesante limitazione degli accessi domiciliari riservati ai casi indispensabili, l’assenza di normali briefing quotidiani e riunioni settimanali di équipe, il morire in solitudine dei malati, il mancato contatto con la salma, il mancato funerale, il rapporto esclusivamente telefonico con i familiari, l’elevato numero di decessi concentrato nel tempo breve, la coartazione del consueto supporto al lutto. Il disagio è stato significativo, tanto da porre la questione se tutte queste limitazioni denaturanti i normali (e alti) standard di qualità della cura fossero giustificati sul piano etico come, ad esempio, emerge dalle lettere che chiudono questo numero della rivista.

La scoperta della tecnologia per umanizzare le cure

Fra gli aspetti sconvolgenti della pandemia in atto vi sono quelli che riguardano la comunicazione tra tutte le figure della triade malato-familiari-équipe, che è fortemente inibita per molteplici cause: quarantena o confinamento domiciliare dei familiari, divieto di accesso o severe limitazioni di accesso dei familiari nelle strutture di cura, mascheramento protettivo operato dai DPI, presenza di presidi di ventilazione artificiale o condizioni cliniche del malato. La vicinanza, il contatto fisico, la comunicazione verbale, non verbale e para verbale sono elementi quasi tutti e quasi sempre inibiti per ragioni di prevenzione del contagio. In un simile frangente la tecnologia, principalmente rappresentata da telefoni cellulari e tablet, spesso donati tramite raccolte fondi, ha permesso di mantenere un debole ma essenziale legame fra il malato isolato e i famigliari confinati a casa, oppure fra il medico e i familiari nella agognata, e al contempo temuta, telefonata quotidiana. Un benefico uso di chiamate telefoniche, videochiamate e talvolta messaggi o addirittura e-mail, che difficilmente si immaginava prima della pandemia ove l’uso della tecnologia spesso evocava reazioni di rigetto perché ritenuta disumanizzante o in contrasto con varie regolamentazioni (tutela dei dati personali, ecc.)9,13.

La rimozione della necessità del triage durante una crisi umanitaria

Oltre alla già menzionata rimozione istituzionale nazionale circa la necessità di palliare le sofferenze di questi malati, soprattutto di quelli che non erano candidabili o non rispondevano alle cure intensive e sub-intensive, durante il mese di marzo si è verificata una altrettanto potente rimozione mentale riguardo l’ineludibile necessità di attuare un triage in corso delle crisi pandemiche.

Infatti, nonostante il triage sia una (dolorosa) ma intrinseca necessità nella medicina delle catastrofi e nelle maxi emergenze14-18, in vari settori come quello sanitario, ordinistico, giuridico, filosofico e mediatico, è scattato un riflesso condizionato di negazione. Di primo acchito si sono negate la necessità clinica, l’opportunità clinica, la liceità giuridica e la giustezza etica di attuare il triage per far fronte al grave o gravissimo squilibrio in atto fra bisogni e risorse complessivamente intese (posti letto, apparecchiature di supporto vitale, personale competente, tempo). Anche di fronte alla drammatica evidenza dei dati numerici che evidenziavano giornalmente tale squilibrio, soprattutto in molte aree urbane e sub-urbane del Nord Italia, si è provato a negare o minimizzare l’ineluttabilità di dover decidere quali malati avviare alle cure intensive e sub-intensive la cui disponibilità era, nonostante gli immani sforzi compiuti per incrementarla, limitata e perciò squilibrata rispetto all’enorme domanda. Questo squilibrio ha di necessità comportato l’attuazione di un triage basato su vari parametri quali la gravità evolutiva del quadro clinico, la risposta ai trattamenti, le comorbilità, l’età biologica, per cercare di orientare le scarse risorse verso quei malati che avrebbero potuto beneficiarne maggiormente nell’ottica di procurare il massimo dei benefici al massimo numero delle persone, come indicato nella medicina delle catastrofi e nelle maxi-emergenze.

In proposito, la SIAARTI ha molto opportunamente emesso un documento di raccomandazioni etiche19 che la SICP e FCP hanno supportato20, sottolineando che tale tempestivo documento non riguardava solo i rianimatori ma tutti i professionisti sanitari impegnati nell’emergenza COVID-19. La reazione iniziale al documento SIAARTI è stata da più parti la negazione del problema nel nome di valori e principi validissimi nella Sanità dei giorni ordinari (universalità di accesso alle cure, iniquità delle discriminazioni rispetto all’età anagrafica o altre fragilità, impronta personalista della nostra Costituzione, rispetto della legge 219/17, principi generali dei codici deontologici, ecc.)21-27. Così facendo si sono però chiusi gli occhi di fronte alla catastrofica realtà dei giorni straordinari che si stavano vivendo, peraltro sminuendo o ignorando i fondamenti etico-deontologici del triage ispirati sia al principio etico di giustizia (allocativa) applicato alle crisi umanitarie sia al criterio di proporzionalità terapeutica che congiuntamente operano nell’allocazione di risorse drammaticamente squilibrate rispetto all’entità della domanda, soprattutto se esponenzialmente incrementale come quella di alcune fasi dell’andamento pandemico28-31.

Analogamente, anche il mondo della comunicazione, tutto centrato sull’enfasi di potenziare le Terapie Intensive e sulle misure di prevenzione del contagio (temi indubbiamente importantissimi), come ha ignorato la sofferenza della fase terminale dei malati SARS-CoV-2, così ha quasi ignorato il problema del necessario triage o ha talvolta tentato di trattarlo, sia pur in sottotono, sotto un profilo scandalistico come forma di deplorevole deviazione dalle buone pratiche mediche.

Una delle ragioni che può spiegare queste reazioni di rimozione o rifiuto suscitate dal triage è verosimilmente psicologica e ha a che fare con il disturbante pensiero della propria morte facilitata dall’essere esclusi da cure intensive o sub-intensive a causa della gravità evolutiva della propria malattia, della propria età biologica o delle personali comorbilità. Questa è una reazione psicologica prevedibile e facilmente comprensibile, soprattutto perché è accentuata dalla inedita prospettiva di morire per una causa infettiva che si riteneva, erroneamente, ormai tramontata nelle ricche società nord-occidentali.

Eppure, a ben riflettere, questo meccanismo psicologico di rimozione del pensiero della morte, in primis della propria morte, non può giustificare sul piano razionale la negazione della ineludibile necessità del triage attuato anche a livello internazionale, ove si è verificato un comparabile squilibrio fra domande e risorse.

Soprattutto, la suddetta rimozione psicologica non può impedire l’avvio di una riflessione pubblica e di una discussione aperta dei criteri con cui condurre il triage, al fine di assicurare l’adozione di criteri di selezione trasparenti e il più possibile condivisi.

Tutto questo riguarda anche le CP perché questa riflessione sul triage non è altro che una forma particolare dello stimolo filosofico-esistenziale che costituisce da sempre il cuore paradigmatico delle CP e che esse hanno da sempre rivolto alla medicina e alla società: pensare e prepararsi alla propria morte per meglio accompagnare quella dei propri simili.

Cosa succederà?

Le considerazioni che seguiranno non vogliono certo avere un valore di previsione ma fissare alcuni dei possibili punti che influenzeranno la futura navigazione della nave in acque che, verosimilmente, non saranno affatto tranquille.

Recuperare le consuete modalità operative
e i precedenti standard di qualità

Riaffermare il valore delle CP simultanee/precoci, riprendere le CP di fine vita con gli antecedenti standard qualitativi di presenza e relazione (anche adattandosi a probabili nuove norme di sicurezza sanitaria e sociale), proseguire la penetrazione nel mondo delle patologie non oncologiche, potenziare l’assistenza domiciliare, rafforzare l’attività ambulatoriale e consulenziale nei reparti di degenza ospedalieri e territoriali saranno obiettivi da continuare a perseguire come nell’era pre-COVID-19.

Forse l’intensa collaborazione che le équipe di CP hanno offerto e praticato con colleghi delle più disparate provenienze specialistiche potrà giocare a favore di una loro apertura mentale e operativa che consenta di attivare le CP più precocemente ed estensivamente. La conoscenza interpersonale diretta e la condivisione di un’esperienza di cura che è stata anche di formazione sul campo potranno giocare un ruolo importante nel superare diffidenze, non conoscenze e altri ostacoli preesistenti. Sicuramente andrà rafforzato l’impegno nello spiegare che le CP praticate durante le fasi più drammatiche dell’epidemia COVID-19 sono state, e non potevano che essere, prevalentemente CP di fine vita, precisando che queste, in normali condizioni sono solo una parte, e auspicabilmente non la principale, delle CP. Detto altrimenti, bisognerà sforzarsi per illustrare e praticare le CP simultanee/precoci.

Consapevolezza del ruolo di supporto etico e decisionale delle cure palliative

Uno dei fatti che è chiaramente emerso da queste esperienze, e che viene citato più volte negli articoli raccolti in questo fascicolo, è il potente ruolo di supporto che le CP hanno esercitato nel processo decisionale sulle cure da apportare ai malati COVID-19. Le nostre competenze su come condurre un processo decisionale in équipe, anche multidisciplinare oltre che multiprofessionale, hanno giocato un ruolo importante nel supportare i colleghi. Analogamente le competenze etiche dei palliativisti si sono rivelate preziose nel valorizzare, nel limite di quanto consentito dalle circostanze emergenziali, il consenso informato, la pianificazione condivisa delle cure e le eventuali DAT, oltre che nel permettere una partecipazione eticamente consapevole alla valutazione dei malati e al conseguente triage.

Anche sotto questo profilo l’esperienza italiana conferma ampiamente le numericamente scarse evidenze di letteratura8,11,32 sull’importanza di valorizzazione tali competenze nella valutazione degli aspetti etici del processo decisionale in questa tipologia di malati. Questa competenza etica era data un po’ per scontata in era pre-COVID ma ora è emersa molto chiaramente e sarà una risorsa importante per partecipare alle future scelte che la medicina e la sanità dovranno affrontare di fronte alle dinamiche epidemiologiche delle malattie (infettive e cronico-degenerative), alle trasformazioni demografiche, allo sviluppo tecno-scientifico e alle congiunture economiche.

Rischi di restrizione economica

Uno dei rischi portati della pandemia COVID-19 è e sarà una crisi economico-finanziaria di intensità e durata non facili a prevedersi oggi. Questo dato fa serpeggiare fra i palliativisti il timore che eventuali futuri tagli al finanziamento dei servizi sanitari danneggino lo sviluppo delle CP in molti ambiti locali, soprattutto in quelli in cui queste erano sottosviluppate. Questo rischio non va ignorato anche per la competizione che si verificherà fra i vari ambiti, specialistici e non, della sanità, di cui già oggi, a pandemia in pieno corso, vi sono chiare avvisaglie.

Ritengo però che non si debba cadere in un pessimismo troppo precipitoso, ma piuttosto si debbano attuare due politiche: la prima consistente in un attento monitoraggio della situazione economica in divenire e nell’intensificare i contatti collaborativi con i livelli programmatori nazionali e regionali, oltre che locali.

La seconda politica deve essere incentrata sul far valere l’importante ruolo che le CP hanno svolto nella gestione sul campo dei malati COVID-19; occorre far emergere anche a livello nazionale o regionale il grande impegno delle équipe di CP svolto in operoso silenzio. Le CP hanno tutto il diritto di affermare “Noi ci siamo stati! Non ci siamo tirati indietro!” in tutti i tavoli istituzionali. Il giusto “operoso silenzio” durante le fasi più critiche dell’emergenza non deve sfociare nell’oblìo, anzi, proprio per rendere onore all’impegno che i palliativisti hanno dimostrato sotto gli occhi di tutti quelli che erano in campo, bisogna farlo emergere e diffonderlo con decisione. A tal fine ci si potrà avvalere delle indicazioni della letteratura scientifica che indica come indispensabile la presenza delle CP nella pianificazione preventiva nazionale di crisi pandemiche sia al fine di migliorare la cura dei malati in tutti i setting sia di prevenire il collasso del sistema ospedaliero limitando i ricoveri di malati domiciliari in fine vita8.

Epidemia COVID-19 come prima occasione
di conoscenza delle cure palliative

Per molti sanitari l’epidemia ha rappresentato la prima occasione per venire a contatto diretto con le CP. L’alta mortalità nelle ondate di malati che hanno investito molte aree metropolitane del Nord-Italia e l’intensità della sofferenza di quelle morti hanno provocato una forzosa conoscenza diretta delle CP in professionisti sanitari dei più disparati settori. Aver toccato con mano l’efficacia delle CP sia nel controllo farmacologico dei sintomi sia nel supportare una comunicazione e relazione, sia pur ostacolate dalle circostanze, oltre che le competenze etiche e di supporto al processo decisionale, dovrebbe facilitare la conoscenza e la fiducia nelle CP in vasti strati dell’articolazione sanitaria ospedaliera e territoriale. Questo è un elemento di forza su cui contare anche in relazione alle preoccupazioni illustrate nel paragrafo precedente.

L’onda lunga dei lutti complicati

In vari articoli di questo numero della rivista, è espressa una fondata preoccupazione circa l’insorgenza di lutti complicati a causa delle condizioni oggettive in cui la morte di molti malati è avvenuta. Molti di questi malati sono usciti di casa senza essere accompagnati in ospedale dai familiari, la loro degenza è avvenuta quasi sempre in isolamento totale, il processo del morire è avvenuto senza accompagnamento dei familiari relegati in casa o a loro volta ricoverati in altri ospedali spesso lontani, la comunicazione dell’aggravamento e del decesso è avvenuta per via telefonica o, nella migliore delle ipotesi, tramite videotelefonata, i riti funebri sono stati quasi aboliti, l’iniziale supporto al lutto reso difficile dai numeri e dai vincoli alla mobilità delle persone e non raramente vi sono stati più lutti nello stesso nucleo familiare. È pertanto verosimile che l’impegno dello psicologo operante nelle équipe di CP, oltre ad essere stato fondamentale durante l’epidemia nel tenere in contatti con i familiari confinati a casa e nel supportare le équipe e le neo-équipe impegnate in prima linea, proseguirà intensificandosi nelle fasi di plateau e di declino dell’epidemia.

Scelte allocative nelle crisi umanitarie

È importante segnalare che dal ٦ marzo, giorno di pubblicazione delle Raccomandazioni etiche della SIAARTI19 alla metà di aprile, data di scrittura del presente editoriale, sono state pubblicate varie linee guida e raccomandazioni di società scientifiche internazionali che sono sovrapponibili nei contenuti e nello spirito a quelle SIAARTI32-35. Il tempo che è trascorso è servito per far sedimentare le reazioni più immediate di disagio e rifiuto, consentendo un approccio più riflessivo. In tal senso sono andati i pronunciamenti più ponderati usciti dalla metà di marzo a quella di aprile, e che, in varia misura, riconoscono la fondatezza etico-giuridica del triage nelle crisi umanitarie anche di tipo pandemico33-46. Si auspica che la riflessione prosegua in tutti i settori (sanitario, ordinistico, etico, giuridico, mass-mediatico) per permettere l’avvio di una discussione pubblica in cui gli aspetti razionali (anche se dolorosi come in tutti i dilemmi etici) prevalgano su quelli puramente emotivi e sui semplicistici pregiudizi.

La copertina di questo fascicolo listata a lutto vuole essere un reverente ossequio ai troppi sanitari e a tutto il personale connesso alla cura fisica e spirituale dei malati oltre che ai custodi della nostra sicurezza, che si sono consapevolmente sacrificati in questa emergenza pandemica.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

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45. Cozzoli M. La ragionevolezza bioetica nelle scelte del medico. www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/ar ticolo.php?articolo_id=82770

46. Mori M. Manzoni, la negazione della realtà (della peste), e l’analogo atteggiamento circa le Raccomandazioni Siiarti sull’emergenza Coronavirus. Quotidianosanità.it 26 marzo 2020. www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=83114