Autonomia personale o relazionale?

Carlo Peruselli

Presidente SICP


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Autonomia personale o relazionale?

Durante il recente Congresso Mondiale sulle Cure Palliative, organizzato dall’Associazione Europea per le Cure Palliative – EAPC e svoltosi a Copenhagen nel mese di maggio, sono stato invitato, nel corso di una Sessione plenaria di quel Congresso, a partecipare a un dibattito insieme a Phil Larkin, nuovo Presidente dell’EAPC, che aveva come titolo: “Autonomia personale vs autonomia relazionale nel contesto di cura nelle diverse parti dell’Europa: cosa è meglio per le Cure Palliative?”

È questa una tematica di grande interesse, oggetto di un intenso dibattito su molte riviste scientifiche internazionali, che riguarda soprattutto i limiti e le difficoltà che le persone che si trovano in condizioni cliniche di fine vita si trovano ad affrontare nel fare scelte autonome rispetto ai trattamenti a cui essere sottoposti.

Cogliendo questa occasione, ho deciso, in accordo con il Direttore della nostra Rivista Luciano Orsi, di modificare lo “stile” e il contenuto di questo Editoriale rispetto ad alcuni dei miei precedenti, più centrati sulla vita societaria e sugli sviluppi normativi delle cure palliative nel nostro paese, e di sintetizzare di seguito alcune delle argomentazioni a difesa del valore dell’autonomia personale (questo era il mandato che avevo ricevuto nell’ambito di quel dibattito) che ho riportato in quella Sessione; sono naturalmente consapevole che, nei limiti delle mie competenze personali su queste tematiche, queste argomentazioni riguardano inevitabilmente soltanto alcuni aspetti di una discussione complessa ed articolata tuttora in corso. Spero tuttavia in questo modo di contribuire a stimolare un dibattito che mi auguro si aprirà anche su RICP relativamente a queste tematiche, in analogia con quanto sta avvenendo su diverse riviste scientifiche internazionali.

Devo dire, prima di tutto, che quando ho ricevuto l’invito a rappresentare, nel corso di quel dibattito, le “ragioni” della difesa dell’autonomia personale nei confronti di quelle dell’autonomia relazionale, che erano state invece affidate al collega irlandese Phil Larkin, ho trovato all’inizio un po’ curioso che queste argomentazioni venissero affidate a me, un medico che è nato e che ha svolto tutta la propria attività professionale in Italia, un paese dell’Europa meridionale. Ad aumentare le mie perplessità iniziali, contribuiva anche la mia nota “passione” per quanto scritto e proposto da Byron Good e Mary Jo Del Vecchio, antropologi della Harvard Medical School, rispetto alla grande importanza della analisi narrativa per riuscire a comprendere i percorsi delle malattie e le interconnessioni (familiari, sociali, professionali) che condizionano inevitabilmente il processo decisionale nelle situazioni di fine vita[1][2]. Pur consapevole di quanto una difesa acritica del valore dell’autonomia personale nelle scelte di fine vita possa condurre spesso ad una semplificazione di questo percorso decisionale, che viene sempre influenzato da fattori familiari e sociali, ho pensato però che forse avrei potuto meglio rappresentare, nel corso di quel dibattito, le ragioni della difesa dell’autonomia personale proprio a causa del contesto culturale nel quale sono nato e ho lavorato, un contesto nel quale la possibilità per un individuo di effettuare in modo autonomo le proprie scelte è ancora oggi troppo spesso messa in discussione; forse, proprio per queste mie radici culturali e professionali, ero più in grado di altri colleghi, provenienti da diversi contesti e da altre nazioni, di cogliere i pericoli contenuti in alcune argomentazioni riportare recentemente nella letteratura scientifica di provenienza anglosassone: “Reigning in patient and individual choice”[3], “Forced to be free? Increasing patient autonomy by constraining it”[4], “Against autonomy: justifying coercive paternalism”[5]. Il timore è che una sottovalutazione troppo forte del valore dell’autonomia personale nelle scelte che riguardano i malati, ci possa condurre su un “sentiero scivoloso” che alla fine rischia di riproporci, in un modo più mascherato, gli errori e i danni di un paternalismo medico che purtroppo ben conosciamo.

Queste sono alcune delle argomentazioni che ho riportato in quella occasione e che, a mio parere, rafforzano invece le ragioni della difesa della autonomia personale nei confronti di una autonomia troppo condizionata dalle relazioni interpersonali e sociali.

1. Un contesto culturale che enfatizza in modo troppo forte il ruolo della famiglia, ad esempio nella difesa del malato dalla comunicazione delle “cattive notizie” e nel mantenimento di speranze illusorie, spesso sconfina nella giustificazione di pratiche che riducono in modo sostanziale il coinvolgimento del malato nel processo decisionale, soprattutto nelle situazioni di fine vita. Nei paesi del Nord Europa ed in generale nei paesi di cultura anglofona, l’informazione al malato sulla propria diagnosi e prognosi è, come noto, una pratica comune per i medici, anche se talvolta viene discussa per le modalità con la quale è messa in atto: alcune scene del film “Still Alice”, relative alla comunicazione della diagnosi e della prognosi in un caso di Morbo di Alzheimer sono state per me di grande impatto, anche emotivo. Ma questa non è certamente la realtà più comune in paesi come l’Italia, la Spagna, la Grecia, il Giappone, nei quali i medici, pur consapevoli del dovere professionale e della importanza di informare il malato sulla diagnosi e sulla prognosi, evitano troppo spesso, ancora oggi, di confrontarsi con il paziente su questi argomenti o lo fanno dopo averne discusso con i familiari, e soltanto se questi sono d’accordo. È una tradizione che per la nostra cultura arriva certamente da lontano, se anche Platone riconosceva il valore positivo delle cosiddette “bugie pietose”, giudicando in modo negativo tutti coloro che mentono per mantenere false speranze, escludendo però in modo esplicito da questo giudizio i medici.

2. La difesa dei principi della autonomia personale è soprattutto la difesa del diritto del malato a decidere rispetto alle possibili opzioni di trattamento che gli vengono proposte; questi principi ancora oggi vengono talvolta messi in discussione, non solo nel nostro paese, in rapporto alla presenza di valori o principi morali definiti come assoluti e indiscutibili. In un mondo che purtroppo, oggi ancor più di ieri, è attraversato da pericolosi fondamentalismi etico-religiosi, la difesa dell’autonomia nelle scelte del malato in rapporto ai propri bisogni e preferenze, anche in situazioni di fine vita, è a mio parere di importanza fondamentale.

3. La difesa del diritto del malato, se lo desidera, ad essere pienamente informato della sua situazione clinica e, di conseguenza, della sua possibilità di fare scelte autonome per quanto riguarda i trattamenti a cui essere sottoposto è anche la difesa nei confronti dell’uso inappropriato di “terapie sperimentali”, soprattutto in alcune condizioni di particolare fragilità.

4. In presenza di patologie croniche evolutive, quando la dipendenza anche assistenziale dalle altre persone aumenta in modo costante, la difesa dell’autonomia personale del malato riduce il rischio di possibili interferenze negative da parte della famiglia o della società, che sono talvolta legate ad interessi economici o di esclusione sociale. Alcuni condizionamenti sociali di natura oppressiva possono certamente influenzare, o perfino modificare profondamente, la formazione dei desideri delle persone e, di conseguenza, le loro scelte. In un recente articolo[6], che analizza le difficoltà nella applicazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento in Albania, un paese che è uscito solo recentemente da un regime dittatoriale e oppressivo nei rapporti sociali, gli autori riferiscono che in passato le decisioni dei medici venivano molto raramente discusse con i malati. In accordo con una filosofia sociale largamente accettata, lo stato si occupava di ogni cosa, anche dei dettagli della vita quotidiana di ciascuna persona. Il sistema sanitario era parte integrante di questa organizzazione statale, e per questo motivo le decisioni dei medici non venivano mai messe in discussione. Questa situazione, che purtroppo è ancora comune in molti altri paesi, è a mio parere un tipico “sentiero scivoloso”, lungo il quale le argomentazioni prodotte a difesa del valore della “autonomia relazionale” a scapito di quella personale si trasformano nella difesa di un pericoloso paternalismo di stato o di governo.

5. In alcuni contesti culturali, la difesa dell’autonomia personale del malato è anche la difesa nei confronti di alcuni “miti negativi” rispetto all’uso di farmaci, soprattutto degli oppioidi, per ottenere il controllo del dolore. Riporto, solo a titolo di esempio di una situazione che purtroppo è ancora talvolta presente anche nel nostro paese, un breve riassunto di quanto riportato recentemente sulla Rivista “Nursing Ethics”[7]. È la storia di “Marianna”, una donna indonesiana di religione musulmana, il cui unico desiderio era quello di poter controllare un dolore molto intenso in una condizione clinica di fine vita; una donna che, come risultato di una serie di condizionamenti legati al proprio contesto familiare, sociale, culturale, è stata costretta, fino quasi agli ultimi giorni di vita, ad accettare quanto veniva deciso dal proprio marito rispetto all’uso dei farmaci oppioidi, considerati in modo fortemente negativo a causa dei possibili effetti collaterali sullo stato di coscienza della malata. Una situazione simile a quella che purtroppo ancora oggi molti si trovano talvolta a dover affrontare anche nel nostro paese.

6. In definitiva, la difesa dell’autonomia personale del malato nelle scelte che lo riguardano, anche in situazioni di fine vita, è la difesa nei confronti dell’utilizzo del “paternalismo medico” come principio prevalente per quanto riguarda la relazione medico-paziente e i processi decisionali relativi ai trattamenti.

Queste sono state le argomentazioni principali che ho riportato in quel dibattito a Copenhagen e che ho voluto condividere con tutti i Soci della SICP in questo editoriale: come già detto, mi auguro che possano essere di stimolo per l’avvio di un dibattito aperto e libero rispetto a tematiche che credo possano essere di interesse comune per tutti coloro che operano nelle cure palliative del nostro paese.

Bibliografia References

[1] Good B.J. “Narrare la malattia” Einaudi Ed. 2006

[2] Gordon D., Peruselli C. “Narrazione fine della vita. Nuova possibilità per valutare la qualità della vita e della morte” Franco Angeli Ed. 2001

[3] Sheehan M. “Reigning in patient and individual choice” J. Med. Ethics 2014;40:291-2

[4] Levy N. “Forced to be free? Increasing patient autonomy by constraining it” J. Med. Ethics 2014;40:293-300

[5] Conly S. “Against autonomy: justifying coercive paternalism“ Cambridge University Press 2012

[6] Vyshka G, Kruja J. “Inapplicability of advance directives in a paternalistic setting: the case of a post-communist health system” BMC Medical Ethics 2011;12:12

[7] L.K.Radha Krishna “Limits to relational autonomy – the Singaporean experience” Nursing Ethics 2014,1-10