Cure palliative e spiritualità: armonie e dissonanze

SANDRO SPINSANTI

Istituto Giano per le Medical Humanities, Roma.

Ricevuto il 24 gennaio 2023. Accettato il 25 gennaio 2023.

Riassunto. Cure palliative e spiritualità: due concetti, due pratiche ineccepibili nel proprio ambito. Eppure, quando sono accostate possono danneggiarsi reciprocamente. Il pericolo viene dalla modalità in cui è organizzata la loro interazione. In concreto, ciò succede quando alle cure palliative viene assegnato il ruolo residuale che in passato era riservato alla religione, chiamata a intervenire quando la medicina si ritirava e subentrava il ministro del culto. Così viene deformato il ruolo della palliazione, fatta equivalere all’accompagnamento al decesso; ma anche quello della spiritualità, ridotta alle pratiche religiose e confinata sulla soglia del passaggio dalla vita alla morte. La spiritualità, come componente della dimensione umana tout court, abbraccia invece tutta la vita e può seguire anche percorsi laici. E l’approccio palliativo è connaturale all’intera dimensione della cura. Dalla medicina narrativa ci aspettiamo testimonianze di felici combinazioni di spiritualità e palliazione, che evitino le trappole riduttive dell’una e dell’altra.

Parole chiave. Cure palliative, spiritualità, pastorale religiosa, medical humanities, medicina narrativa.

Palliative care and spirituality: harmonies and dissonances.

Summary. Palliative care and spirituality: two concepts, two impeccable practices in their own sphere. Yet when they are juxtaposed they can harm each other. The danger comes from the way their interaction is organized. In concrete terms, this happens when palliative care is assigned the residual role that in the past was reserved for religion, called to intervene when medicine was withdrawn and the minister of worship took over. Thus, the role of palliation is deformed, made equivalent to accompanying death; but also that of spirituality, reduced to religious practices and confined to the threshold of the passage from life to death. Spirituality, as a component of the human dimension tout court, instead embraces the whole of life and can also follow secular paths. And the palliative approach is connatural to the entire dimension of care. From narrative medicine we expect evidence of happy combinations of spirituality and palliation, which avoid the reductive traps of both.

Key words. Palliative care, spirituality, religious pastoral care, medical humanities, narrative medicine.


Cure palliative e spiritualità: un matrimonio felice, destinato a produrre buone pratiche? Siamo inclini a pensarlo. Eppure avviene che personalità eccellenti ognuna nel proprio ambito, quando sono messe insieme non leghino; ancor peggio, tendano a danneggiarsi reciprocamente. È quanto possiamo intravvedere nel rapporto tra spiritualità e palliazione, se dedichiamo una riflessione più attenta al modo in cui vengono abbinate. Mandandole a braccetto, rischiamo un cortocircuito, che nuoce sia all’una che all’altra realtà. Eppure, se le prendiamo isolatamente, non abbiamo niente da eccepire: le cure palliative sono una dimensione della buona pratica medica; la spiritualità è un’auspicabile potenzialità di sviluppo per l’essere umano (a meno che non si opti per un materialismo intransigente). È la loro vicinanza che costituisce un pericolo; o piuttosto la modalità con cui immaginiamo la loro interazione.

Il peggiore scenario è invocare il ricorso alla dimensione spirituale in un contesto in cui le cure palliative sono intese come l’equivalente del tradizionale: “Non c’è più niente da fare: chiamate il prete”. Con il palliativista che prende, laicamente, il posto del ministro del culto. Conosciamo la pratica tradizionale nei contesti culturali impregnati di pratiche religiose: a un certo punto la medicina si ritirava per lasciare il posto a chi si occupava della sorte dell’anima. Le cure mediche ritenevano di aver terminato il proprio compito. Il modello non cambia se l’alternanza è assicurata ora dalla palliazione, magari rafforzata dall’assistenza spirituale. L’insidia consiste nel presupposto che non ci sia più niente da fare. Anzitutto perché presuppone che, clinicamente, a un certo punto dell’evoluzione della malattia, quando si è fatto tutto il possibile – spinto non di rado fino a ciò che la legge 219 del 2017: Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento definisce come “ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure” e “ricorso a trattamenti inutili e sproporzionati” – non si profili che la ritirata; le cure palliative vengono così a costituire solo l’accompagnamento alla morte, che non è di pertinenza medica.

È errato pensare e dire che non ci sia più niente da fare. Uno slogan fatto proprio dalla Società Italiana di Cure Palliative (SICP), fin da quando ha cominciato il suo percorso contrastato nella Sanità del nostro Paese, è che c’è tanto da fare… quando non c’è più niente da fare. Perché le cure palliative non presuppongono l’abbandono terapeutico del paziente che sta morendo, grazie al passaggio a un’altra agenzia, che sia la spiritualità o la palliazione. Le cure palliative hanno il compito di lenire il dolore e contrastare i sintomi; a questo fine sono prevedibili anche sofisticati interventi terapeutici. E la palliazione non deve essere concepita come l’ennesima transizione da una specialità medica a un’altra: come se – per dire – terminato il tempo di competenza dell’oncologo o dello pneumologo, dovesse comparire sul palcoscenico lo specialista a cui compete di occuparsi del trapasso. Per non dire del duplice trauma che costituisce per il malato l’emergere di una figura che equivale a un “nuncius mortis” (precedentemente il sacerdote, ora il palliativista; tanto che non sono rare le équipe di cure palliative che non si presentano con questa denominazione, ma con altre qualifiche più rassicuranti), oltre alla traumatica cesura con curanti che magari l’hanno seguito per anni. Una specie di staffetta, in cui lo specialista di riferimento passa il testimone a quello che deve condurre a termine la corsa.

L’approccio palliativo, salvo specifiche conoscenze e abilità, dovrebbe essere proprio di ogni curante; ed essere “simultaneamente” presente sul lungo percorso di cura. Non è un’altra medicina, né un’alternativa alla medicina: la palliazione è parte costitutiva del rapporto di cura, nella situazione in cui non si abbiano interventi capaci di contenere l’avanzata della patologia. Non escludiamo con questo che possano essere richieste delle competenze specifiche che in alcune situazioni rimandino a specialisti della palliazione: pensiamo alla sedazione palliativa profonda, prevista peraltro dalla stessa legge 219 che abbiamo citato. Sensibilità e conoscenze per l’approccio palliativo sono richieste a ogni curante e dovrebbero far parte della formazione di qualsiasi professionista sanitario. La palliazione come attività residuale comporta una visione distorta delle cure palliative stesse.

L’isolamento della palliazione nel segmento finale della vita, quando si ritiene che sia giunto il momento di sgomberare il campo dalla medicina e lasciare il compito dell’assistenza alla spiritualità, è nocivo anche per la vita spirituale stessa. Rischia di farla equivalere a pratiche rituali, come quella che fino a poco tempo fa nell’ambito religioso veniva qualificata come “estrema unzione”. O al conforto per quando è finito il tempo della speranza e si ritenga opportuno rivolgere l’attenzione alla salvezza dell’anima. Come se la spiritualità avesse a che fare unicamente con l’‘altra vita”, piuttosto che con la vita tout court. La spiritualità ha un ben più ampio respiro. Non è sovrapponibile a pratiche religiose; né tantomeno va confinata sulla soglia terminale della vita. Se la spiritualità è la spinta che ci fa alzare in punta di piedi sulla terra; se è equivalente alla forza che ci fa assumere “la linea verticale”1, per appoggiarci alla metafora con cui Mattia Torre ha sintetizzato la propria vicenda autobiografica, deve essere una risorsa in tutto l’arco della vita. Specialmente quando questo arco declina sotto la spinta di una patologia che minaccia l’esistenza. Anche la spiritualità, come la palliazione stessa, diventa una caricatura di quello che può e deve essere, se è considerata come attività residuale.

Palliazione e spiritualità possono nuocersi reciprocamente. Ma possono anche convivere armoniosamente. Purché il loro accostamento non conduca a una reciproca restrizione di significato e di ambito di intervento nel processo di cura. Affinché si realizzi il secondo scenario dobbiamo pensarle in modo ampio e rigoroso, evitare le pratiche dannose – le dissonanze che producono una distorsione sia dell’una che dell’altra – e impegnarci a promuovere una collaborazione fruttuosa. Il come chiediamolo a quelle realtà, che esistono anche se sono ancora rare, dove spiritualità e palliazione sono concepite in senso proattivo e abbracciano un ampio raggio del percorso di cura. Un compito auspicabile della medicina narrativa è quello di raccogliere queste preziose testimonianze.

1Torre M. La linea verticale. Milano: Balbini & Castoldi, 2017.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.