Prove di apocalisse per la fine del mondo: appunti per la palliazione a un mondo che finisce

GIORGIO DI MOLA

Medico intensivista, anestesista-rianimatore, Socio fondatore SICP.

Pervenuto il 3 agosto 2021. Accettato il 4 agosto 2021.

Riassunto. Il presente contributo riprende l’ipotesi delle “apocalissi culturali”, esposta in un lavoro dell’etnologo Ernesto de Martino, elencando una serie di eventi e atteggiamenti che hanno caratterizzato questo periodo e ancora si presentano per e a seguito della pandemia in corso. Tali eventi sono a capo di trasformazioni che anziché convergere verso un mondo “migliore”, come preconizzato da un pensiero diffuso, portano in superficie gli aspetti di una grave crisi comunicativa, culturale e relazionale, per la quale non si intravvedono per ora possibili segnali di ripresa. Ciò porta a concludere che, in assenza o per la precarietà degli strumenti tradizionali di comprensione e accettazione della realtà e delle sue regole, il mondo che sta finendo dovrà passare una “soglia” di notevoli sofferenze per raggiungere l’aggregazione in un mondo nuovo.

Parole chiave. Pandemia, apocalisse, spazio, tempo, fine vita.

Attempt of apocalypse for the end of the world: notes for the palliation to a world that ends.

Summary. This paper takes up the hypothesis of the “cultural apocalypses”, set out in a work by the ethnologist Ernesto de Martino, listing a series of events and attitudes, which have characterized this period and still occur for and following the pandemic in progress. These events are at the head of transformations which, instead of converging towards a “better” world - as predicted by widespread thought - bring to the surface the aspects of a serious communication, cultural and relational crisis, for which no possible signs of recovery. This leads to the conclusion that, in the absence or due to the precariousness of the traditional instruments of understanding and acceptance of reality and its rules, the world that is ending will have to pass a “threshold” of considerable suffering to reach aggregation in a new world.

Key word. Pandemic, apocalypse, space, time, end of life.

Da questa pandemia non giungono segnali confortanti.

Possiamo provare ad addolcire le regole di realtà, ma trascurarle può produrre dannose rimozioni.

Si dice che un nuovo mondo ci aspetta. Se ciò è vero questo mondo dovrà finire.

Non sappiamo come avverrà, possiamo solo desiderare che tutto avvenga con il minor dolore possibile. Dunque, occorrerà un intervento palliativo, urgente e di elevata intensità per il presente e il futuro prossimo, ma con uno sguardo a ciò che ci aspetta in un lungo e più doloroso periodo, al quale non potremo sottrarci.

Ogni cambiamento, una fine, o una rinascita, è obbligato a un passaggio segnato da una privazione, una perdita per sé dolorosa, una sofferenza, come passare sotto una gogna o essere sottomessi a un giogo. Lo testimoniano i riti di “passaggio”, caratterizzati da tre momenti: la separazione, il margine (la soglia) e l’aggregazione. La soglia è il momento più doloroso, sul quale dovremo concentrarci. Come nel rito del matrimonio, dove la soglia è il distacco dal mondo genitoriale, per entrare nella vita di coppia, o il rito del passaggio alla maturità scolastica con la soglia dell’esame, la morte con la soglia della terminalità, e così via1.

La soglia che stiamo passando o passeremo si presenta temporalmente più lunga e, di conseguenza, si potrà accumulare più dolore per arrivare all’aggregazione in un nuovo mondo.

Già abbiamo affrontato l’argomento: sappiamo che con il rito diamo “forma” alla mitologia, che addolcisce la realtà e ci rende conto di ciò che è difficile e doloroso da sopportare, attraverso il linguaggio comprensibile e universale del racconto. A nuovi miti e a forme rituali rinnovate dovremmo quindi riferirci per “passare” nel mondo che ci aspetta. Ma come reperire nuove forme nella rarefazione di valori e nell’incipiente scarsità di senso e di risorse, che regna sulla nostra civiltà?

La pandemia ha sviluppato una sorta di “pan-assolutismo”, per le tante buone intenzioni e un acritico ottimismo, che domina in variegati annunci, diffusi in tanti ambiti, da quello sanitario, a quello politico ed economico. Il messaggio è che tutto andrà “assolutamente” bene, se solo ci si saprà affidare alle decisioni di abili “tecnici”, che con la loro capacità ed esperienza sapranno condurci fuori dall’incubo.

È l’ottimismo che sprigiona, in questa guerra contro il virus, dal piglio decisionale di un pluridecorato alpino, che tratta l’emergenza, come è suo dovere e abitudine, in anfibi e tuta mimetica, all’assalto dell’invasione infettiva. Ancora più positiva e promettente è la personalità, all’apparenza apatica e inscalfibile, di un economista, ammirato universalmente per la capacità di navigare in un oceano di risorse e denaro, che ristorerà i lavoratori privati del salario e riporterà le industrie ad un’efficiente produttività. Sono i vaccini a RNA messaggero e a vettore virale a fornire ancora ottimismo e fiducia, promettendo di mettere il nostro organismo al riparo dagli attacchi del virus. Il virologo di fama ci rassicura sulla prossima e vicina “uscita dall’incubo” e sulla riconquista delle “libertà individuali”. Sono infine i numerosi reparti di rianimazione, vecchi e più recenti, arricchiti di nuovi macchinari e abili tecnici, che ci salveranno dalla fine, quando penseremo di essere oramai preda certa dei nostri limiti.

Questi sono i continui, ripetuti messaggi, e i personaggi che li diffondono, con sapiente regia, rasserenano un immaginario, in luogo di una realtà altrimenti “pre-catastrofica”.

Il senso di questa operazione è trasmettere rassicurazione e fiducia nel futuro da ricostruire, rimarcando il potere della tecnica, capace di garantire nuovo benessere, soprattutto economico.

Non si può negare infatti che ogni richiesta di “salvezza” faccia capo all’idea che può essere solo un’economia di consumi e scambi commerciali che ci può salvare. Se tale “benessere” sarà goduto prima del benessere inteso come “buona salute” o dopo che sarà raggiunto uno stato di buona salute, sembra questione di poco conto. Comunque, è la logica consumista, che comanda, per la quale solo una vigorosa produttività unita a un aumento del commercio favorirà e procurerà gli strumenti e le tecnologie per mantenerci sani e al riparo dall’infezione.

Nemmeno la medicina può salvarsi da questa spirale di negatività, avviluppata come è attorno a scelte, sulle quali grava il potere del denaro e rivolta su sé stessa, nell’inutile ricerca di strade sicure da percorrere, distratta dal fine di una vita qualitativamente migliore e concentrata sul prolungamento di esistenze, tra le quali è costretta a considerare quelle meno pregne di senso.

È una medicina che mostra la sua drammatica scarsità di risorse quando il volto della crisi si mostra attraverso l’enorme quantità di situazioni di emergenza, che soverchiano qualsiasi capacità decisionale.

Di fronte a queste posizioni così evidentemente inclini a dottrine materialiste, dove conta un pragmatismo, ispirato prevalentemente da interessi economici, non è facile sfuggire a considerazioni moraleggianti.

Durante le fasi peggiori della pandemia, non pochi si sono avvicinati al o hanno avvertito simpatia per il relativismo e il pensiero utilitarista, nella parte, se si può dire, migliore, meno “ortodossa”.

Sono stati molti infatti gli interrogativi che hanno messo alla prova quelli che per alcuni sono “assolutismi”, etici o meno.

Chi salvare? Un anziano con polipatologie o con una malattia inguaribile deve fare il vaccino? Quanti respiratori dovremo produrre in previsione della più frequente “morte intubata”? Quali macchinari? Quale modalità, qualità di morte assicurare a chi verrà colpito dai “nuovi” virus? Quante e quali risorse occorreranno per “confortare” i lavoratori malati, le industrie ferme, i responsabili del lavoro? Come affrontare la morte quando gioca con i numeri, codificando stragi di milioni di individui? Esiste in queste circostanze un “ethos” in cui è lecito favorire la morte di una persona? In caso di malattia infettiva grave si può evitare una morte “sporca”, solitaria, isolata?

Un fatto sociale “totale”

La pandemia che stiamo vivendo è ciò che in antropologia si chiama un “fatto sociale totale”.

È così che Marcel Mauss ha per primo definito un evento significativo per la maggioranza della società e che ha ripercussioni nelle pratiche e nelle credenze di tutti noi.

Il pensiero di Mauss si riferisce alla “teoria del dono”, che comporta lo “scambio”, segnato da tre momenti: l’offerta, l’accettazione e la restituzione.

Nelle società in cui avviene lo “scambio”, si creano, di necessità o per dovere, delle relazioni significative, basate sul valore del dono e il senso morale, il valore dello scambio. Per queste il dono si configura, nelle sue dinamiche rituali, come “fatto sociale totale”2.

Le implicazioni, che hanno portato alcuni sociologi a riferirsi a questa teoria, a proposito della pandemia, riguardano le modifiche profonde e inevitabili e la sostenibilità delle ipotesi di profonda trasformazione sociale, degli atteggiamenti, abitudini e usi messi alla prova della cartina di tornasole di questa ancora misteriosa pandemia.

Al di là delle implicazioni già esaminate, merita un’analisi il motivo per cui sia stata necessaria la materializzazione di una strage, per mettere in luce l’inefficienza di una Sanità centrata su basi tanto instabili: l’iniziativa privata, le tecnologie in luoghi di ricovero privilegiati, la disattenzione alle potenzialità e all’importanza di una medicina territoriale, pubblica, civile, diffusa distrettualmente, con operatori preparati ad offrire un’organizzazione dinamica ed efficiente.

Fa d’altronde riflettere come gran parte dell’umanità abbia accolto con entusiastico ottimismo l’ipotesi di una rapida uscita dall’emergenza. Forse si è sentita illuminata dal sole di un avvenire radioso, che avrebbe scaldato di bontà e altruismo i cuori e aperto le menti. Un’umanità migliore, animata e raccolta intorno al motto “Andrà tutto bene!”.

Troppi hanno sviluppato l’idea che dalle macerie della pandemia se ne sarebbe usciti “più buoni” e con un’organizzazione sociale e sanitaria migliore.

Anche se ancora non disponiamo di dati e osservazioni sufficienti, per poter meglio definire le conseguenze di questa emergenza, molti segnali dovrebbero allarmare e renderci consapevoli di essere testimoni e soggetti di una vicenda apocalittica, nella quale c’è già la misura di quella che potrebbe essere la fine dell’umanità, se non del mondo.

A proposito di questo aspetto, trascurato o totalmente rimosso, per le spinte delle ipotesi rassicuranti, di cui si è detto, devo riferirmi ancora all’etnologo Ernesto De Martino e al monumentale lavoro “Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, dove il messaggio del grande studioso riguarda quell’“apocalisse” che, secondo l’autore, potrà essere evitata attingendo a un comportamento morale, un “ethos”, fatto di valori comuni, a cui riferirsi, per realizzare il mondo di domani3.

È arrivato il momento di chiedersi se è questa la strada sulla quale ci stiamo avviando, in epoca di apocalisse pandemica, e qual è la “soglia” che dovremo dolorosamente, obbligatoriamente varcare per ritrovarci nel mondo di domani.

Considerando il concetto di “globalizzazione” e pandemia possiamo pensare al mondo come un unico organismo malato, che mette in crisi la nostra stessa individualità.

Questo unicum profondamente colpito e malato può morire e con lui quindi scompare l’intera umanità. Ciò che saremo non dipende più da noi stessi, ma da una forza superiore alle nostre capacità, che, come abbiamo sperimentato, condiziona e modifica i nostri meccanismi e attività vitali, come il tempo, lo spazio, i concetti di salute e fine vita.

Il tempo, lo spazio e l’attesa

Del tempo all’epoca della pandemia si potrebbe parlare per pagine e pagine, approfittando anche di tutto il tempo che ci ha concesso e sottratto la condizione di involontari reclusi.

Si è parlato di un “tempo sospeso”, sospeso dalle nostre abitudini: il lavoro, le attività ludiche, l’ozio, il riposo. Momenti abitualmente scanditi da obblighi, o non definiti per personale libertà. Tempi che accompagnano lo svolgersi di giornate che, per la maggior parte delle persone e nell’accezione più comune, hanno principio con attività manuali e intellettuali all’inizio della settimana, per concludersi nel riposo domenicale, più spesso prolungato da un sabato libero.

Come dice Saitta, in un articolo apparso su Il lavoro culturalei tempi di sospensione della normalità sono quelli che meglio di altri illuminano l’ordinario e lo si comprende meglio”4.

La sospensione del tempo delle attività abitudinarie obbliga ad affrontare una totale revisione non solo della dimensione temporale, ma anche dello spazio: dagli spazi individuali a quelli comuni, costringendo il nucleo sociale a misurare e riconsiderare i confini, nei quali ognuno può gestire la propria libertà, come quando è forzatamente limitata da imposizioni di legge.

L’impatto della pandemia sugli spazi si è manifestato attraverso una riconfigurazione, in particolare, del modo in cui viviamo gli spazi interpersonali e domestici. Abitare nel senso di processo relazionale, di condividere lo spazio della nostra esistenza con gli altri e non limitato quindi alla materialità delle mura domestiche.

Questo è di grande importanza, in quanto i processi con cui plasmiamo noi stessi, la nostra personalità, sono influenzati e dipendono dal modo in cui abitiamo lo spazio. Una variazione di queste attitudini ci orienta verso un diverso modo di dare forma alla nostra umanità. Per esempio, essere costretti in aree di azione più piccole spinge di necessità ad accentuare l’ordine delle cose e degli oggetti personali, orientando lo spazio in senso prevalentemente verticale, per non invadere il posto del prossimo.

Le relazioni sociali, svuotate del loro significato essenziale di scambio, di dono e prossemica, dato il rischio di contagio da contatto e vicinanza, sono compresse nei comparti di abitazioni oggi sempre più anguste, costringendo famiglie mononucleari e quelle più numerose, a ridefinire i limiti di rapporto e movimento, generando le stesse dinamiche che gli etologi descrivono negli animali in cattività. È noto quanto queste condizioni possano incrementare violenze e atti criminali intradomestici. Senza trascurare che, di riflesso, nei periodi di momentaneo allentamento delle restrizioni si presentano grossolane e iperboliche manifestazioni di giubilo, che sfociano in esternazioni violente e assembramenti, a dispetto delle norme vigenti e del buon senso.

Cosa c’era da aspettarsi, da un così lungo periodo di inattività, di compressione delle proprie pulsioni e desideri, di semi-immobilità fisica, di sopportazione di quel tempo, che non è più distinguibile nella componente di “Kronos” – il tempo del lavoro, dell’attività produttiva, intellettuale, scandito inesorabilmente dalle lancette dell’orologio – e di “Kairos” – il tempo dell’ozio e del piacere, che sembra passare più lentamente, senza la schiavitù dello scorrere dei secondi?

Per alcuni è stato come vivere la breve vita di Kaspar Hauser, descritta dal regista Werner Herzog nel film “L’enigma di Kaspar Hauser”. Kaspar vive isolato dalla nascita in una torre – siamo agli inizi del’800 – allevato e nutrito da un ignoto individuo, che lo tiene incatenato sino alla maggiore età. Un giorno viene liberato nella piazza di un paese, perfettamente abbigliato e con una lettera tra le mani, con le scarne informazioni per aiutarlo a sopravvivere. La vita di Kaspar, privato per anni del tempo, è segnata da scoperte che stupiscono la sua psiche elementare – straordinaria la scoperta dei sogni – e termina bruscamente per le ferite infertegli da un misterioso individuo (forse lo stesso che l’ha liberato). Alla fine, c’è chi si affanna a cercare la soluzione dell’enigma, e si convince che sia nel corpo di Kaspar, che alla dissezione anatomica presenta un cervello di dimensioni diverse da quelle conosciute. Il tempo di Kaspar è fatto di accettazione, senza strenue difese, affidato alla passività forzata di una situazione surreale e alla scoperta giornaliera di ciò che è necessario per non soccombere, sotto la violenza di qualcosa che modifica e limita il tempo.

Una vicenda simile è nel film coreano “Old Boy”. Un giovane si trova improvvisamente prigioniero in una camera, come quella di un albergo, da cui non può uscire, vedere l’esterno, né in alcun modo comunicare. Vive in quella situazione per una decina d’anni, per essere poi liberato misteriosamente. Una volta libero il suo più urgente desiderio è la vendetta. Il suo tempo è speso a trovare il motivo e il responsabile di quella reclusione, per punirlo. In modo simile una popolazione di individui ha vissuto il tempo della pandemia come reclusa in una stanza d’albergo, in un vuoto senza senso, di cui ha subìto passivamente le conseguenze fisiche, psicologiche ed economiche, impegnati solo nella ricerca del responsabile.

Ma come punire il virus, che è il maggior responsabile?

Il tempo dell’attesa, infine, ancor più della forzata inazione, è stato l’orizzonte prevalente nella vicenda di vita e malattia, che ha dominato e sta caratterizzando questo periodo.

Si è instaurata una evidente rarefazione della capacità di vivere l’attesa e, di conseguenza, delle “virtù” conseguenti all’attesa: la pazienza e la speranza.

Dice Stefania Rossini, scrittrice e blogger: “L’arrivo del covid aveva improvvisamente dato nuova vita e anche nuove facce alla pazienza. Non eroica, come la voleva Leopardi, ma speranzosa durante i primi lockdown, avvilita con il crescere dei contagi, stizzita per le restrizioni non accettate, cattiva nel dare sfogo ai pensieri più duri...”5.

È vero che, per responsabilità di alcuni politici, vi è un continuo nutrire di impazienza la popolazione, generando conflitti, animati da false speranze, con corse all’aprire tutto, il prima possibile, o chiudere tutto, ridare la “libertà” alla gente, reclusa contro la sua volontà, ripristinare al più presto i contatti umani e “chi se ne frega di chi deve morire!”.

“Le persone vogliono venir fuori, e se qualcuno morirà, pazienza!” (Noto dirigente di Confindustria a Radio Anch’io, maggio 2021).

Così viene trattata la pazienza.

La misura della salute e la fine della vita

Dopo decenni dominati dalla negazione della finitezza delle nostre vite, ci si è riscoperti mortali e si mostra in un modo sconvolgente la nostra vulnerabilità e il nostro estremo limite.

La ricerca e il desiderio di giungere a una morte “naturale”, per vecchiaia, vengono ridimensionati dalla morte causata da un virus, che predilige proprio le persone anziane, inevitabilmente le più deboli e meno difese.

Malgrado ciò, è innegabile che un virus, escludendo tesi complottiste, sia una causa “naturale” di malattia e morte. Una “naturalità” paradossalmente sostenuta dalla evidente similitudine con le “naturali” morti del passato. “Naturali” per grandi pestilenze, data l’impotenza dei moderni strumenti per contrastarla, se si esclude ovviamente la prevenzione vaccinale. Come è per di più dimostrato dallo strumento di contrasto più efficacie: il ricorso a misure di contenimento basate esclusivamente sul buon senso e l’educazione delle persone. Sulla disciplina di infettati e non, capaci di aderire a elementari norme igieniche. Molti contagi si sono evitati perché si è imparato a lavare le mani, a disinfettare le superfici, possibili ricettacoli di virus, e a mantenere una debita distanza dal prossimo.

Questa “moderna” pestilenza, che “moderna” non è se non nel suo dispiegarsi temporale, si configura in un percorso di fine vita inesorabilmente segnato dalla carenza di ossigeno sia fisiologica, che per insufficiente produzione industriale. È un mondo che muore, soffocato dalla mancanza di ciò che di più naturale ed essenziale deve essere in qualsiasi pianeta, per far nascere e conservare la vita.

A fronte di queste considerazioni si è tentati di ipotizzare un futuro distopico dove l’orizzonte dell’umanità è limitato nel quadro di una generale abulia di conoscenze, di rarefazione di memoria fisiologica e di inflazione di memoria digitale, che può inaridire alcuni circuiti cerebrali, oltre a limitare il diritto all’oblio.

Le attività a distanza, un esercizio al quale ha costretto la possibilità di contagio, favoriscono l’inerzia fisica e di conseguenza sminuiscono le funzioni muscolari, messe a riposo anche dalla possibilità di ricevere a domicilio tutto ciò che occorre per vivere e sopravvivere. E di cose anche meno necessarie. Ne stanno approfittando e ne approfitteranno sempre più, visti i guadagni spropositati, potenze industriali e poteri politici. Si rischia di diventare schiavi, senza accorgersene, di ciò che sembra essere escogitato per una nostra maggiore libertà.

In questa vicenda hanno facile gioco i cosiddetti “grandi fratelli” che, insieme a un’incontrollata globalizzazione, stanno sottraendo senso alla persona come individuo sociale, trasformandolo nella particella di una comunità di semi-automi, sensibili agli algoritmi, ipnotizzati dal consumo, privi di volontà e intelligenza, il cui destino è una fine sempre meno “naturale”.

La pandemia ha accentuato le diseguaglianze sociali. Il timore del controllo e la libertà. Il senso della vita e il suo valore “nazionalistico”, con l’accaparramento degli strumenti sanitari e poi dei vaccini, ha orientato la clinica a una maggiore capacità a difendere la vita, che non la sua qualità.

A questa deriva non si sottrae la medicina moderna che, schiava del metodo statistico, è ancora lontana dal domandarsi quali saranno i bisogni e le richieste dei pazienti, non interessati alla statistica scientifica, quella che accomuna i dati di più persone, ma che vogliono sapere che ne sarà di loro.

D’altra parte, variegate narrazioni sociali, prodotte in clima di emergenza, offuscano o confondono i dati scientifici più seri e attendibili, negando qualsiasi possibilità di scelta chiara e autonoma.

Così la “salute” viene misurata sulla capacità di accaparrarsi beni, come i vaccini, considerati più o meno essenziali, assimilando il benessere non alla sicurezza degli strumenti a difesa della propria integrità, ma alla forza delle proprie risorse, per allontanarsi il più possibile dal contagio e scampare a potenziali “untori”.

Così si faceva durante le grandi pestilenze della storia, così si è ridotti oggi nell’era dell’antropocene, nella quale dobbiamo fare i conti anche con l’indebolimento delle biodiversità.

In poco più di 40 anni, infatti, il pianeta ha perso in media il 60% delle popolazioni di vertebrati e metà delle foreste. Abbiamo individui produttori (le piante), consumatori primari (gli erbivori), consumatori secondari (i carnivori) e decompositori. Se tali interazioni non avvengono, non possono agire da fattore limitante per la crescita delle varie popolazioni, consentendo di mantenere un certo equilibrio nell’ecosistema. I drammatici effetti della perdita di biodiversità si palesano giorno dopo giorno in molteplici contesti.

Gli epidemiologi e altri ricercatori non nascondono che subiremo altre e più pericolose pandemie. Molti studi confermano la correlazione tra la diffusione di malattie infettive emergenti, come quella da virus Ebola, la SARS, la MERS e la più recente, il Covid-19, e i rilevanti problemi ecologici, come la perdita degli habitat naturali e delle nicchie ecologiche, la frammentazione degli ecosistemi, la cattura e il commercio di specie selvatiche e più in generale la distruzione della biodiversità.

La chiusura delle frontiere nazionali, il blocco dei voli, la “territorializzazione” dell’esistenza, mostrano da un lato quanto a fondo la globalizzazione influisca sulla nostra presenza nel mondo; dall’altro invitano a pensare se e quanto potremmo farne a meno, aprendo ad altri mondi possibili.

Come non bastasse nasce la riprovazione morale verso i contagiati, che sono vittime ma al tempo stesso colpevoli di aver sottovalutato il rischio e forse di aver così contagiato altri.

Chiara Moretti, docente di antropologia medica all’Università di Bologna, svolge alcune osservazioni molto interessanti sul contesto di attribuzioni morali che il contagio e le misure di contenimento hanno innescato. Secondo la studiosa questa “carica morale”, attribuita al rischio, non è un effetto secondario di una cattiva comunicazione o di un governo inadeguato, che intende criminalizzare i cittadini: è un meccanismo che l’antropologia e la storia culturale conoscono bene. Il riferimento della Moretti è a “una concezione quasi stregonica del paziente-zero”, che indica una direzione comparativa con la stregoneria. È il meccanismo dell’untore, sia pur espresso attraverso un diverso linguaggio, o quello delle accuse di stregoneria, che porta di nuovo il campo biomedico a incrociarsi con una dimensione morale, dalla quale si era da secoli distaccato6.

Da parte sua l’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che: “si può provare a trasformare la crisi globale innescata dalla pandemia, in un’occasione unica per rivedere in modo sostanziale i punti deboli dei nostri modelli di sviluppo e di eco-sostenibilità, le fragilità dei nostri sistemi sanitari, ma anche, più in generale, i limiti della biomedicina contemporanea al di là dei suoi grandi avanzamenti in termini di ricerca”.

A fronte di questo “commovente” tentativo di redenzione della “biomedicina” c’è chi sostiene che allo stato attuale, il potere medico non è più un potere sulla vita ma un potere sulla morte.

Contrariamente a ciò che è successo nel XIX secolo, non si tratta più, infatti, di far vivere e lasciar morire, ma di far vivere il capitale e far morire i vecchi e gli improduttivi. L’ha testimoniato il continuo appello alla riapertura delle imprese, malgrado le norme igieniche, il richiamo al distanziamento e in contraddizione con le ingiunzioni a evitare contatti ravvicinati e a restare a casa.

Il triage ha avuto per effetto drammatico quello di sostenere che è lecito separare chi è destinato a sopravvivere da coloro la cui vita ha “meno importanza”, quelli che possono essere sacrificati sull’altare degli azionisti, degli economisti, dei faccendieri, dei bottegai, sia che si tratti di persone vecchie e malate, che di indesiderati come i migranti o i richiedenti asilo.

Si è passati così a un tanato-potere, una tanatocrazia, per non parlare del risveglio di una nuova “eutanasia”, sostenuta soprattutto dai più giovani: “I vecchi? Devono morire. Che “morissero”.” (da un’intervista a “Piazza Pulita”, maggio 2021).

La libertà di cura, o di non curarsi, di morire senza essere presi in carica, viene vista come una liberazione. La privatizzazione della sanità, il fatto di dar credito solo a medici cosiddetti “liberali”, a cliniche private, appare come il mezzo privilegiato per sfuggire alla stretta coercitiva dello Stato.

Per l’antropologo la pandemia segna la rottura con il “biopotere” degli Stati moderni, teorizzato da Foucault, e l’ingresso in un nuovo regime: quello dell’“ordine sacrificale”, quello del darwinismo sociale, per il quale la sopravvivenza dei più validi diviene la preoccupazione fondamentale.

Per concludere

Cosa dunque potranno chiedere alla medicina i nostri futuri clienti?

In futuro chi sta morendo chiederà paradossalmente un po’ più di dolore per sentirsi vivo e suscitare maggiori attenzioni? Chiederà di essere “svegliato” se la morte è imminente per guardarla in faccia in un ultimo afflato di eroismo, che lo renda per sempre indimenticabile? O vorrà essere lasciato solo in una stanza, riccamente monitorata, dopo aver ricevuto il massimo delle applicazioni tecniche? O vorrà disporre all’uso di un cocktail di Brompton “sbagliato”, da conservare in frigorifero?

La pandemia non ci ha insegnato nulla di positivo, né lasciato semi, da cui si possa sperare germoglino frutti utili alla nostra vita quotidiana o sopravvivenza futura. Ha solo dato una misura della nostra vulnerabilità, della nostra mortalità, riaffermando l’imprevedibilità della Natura e il suo potere imperscrutabile. Cose risapute, ma trascurate e affossate da vari poteri, ai quali le persone si affidano acriticamente, per comodità e scarsità di basi culturali ed etiche.

Una cosa è certa: è in corso un’anestesia totale e generale del giudizio critico e la soppressione di tutto ciò che può generare sofferenza, il dolore necessario per oltrepassare la soglia di ciò che dobbiamo lasciare, con dignità, e la consapevolezza di entrare in un nuovo mondo, per essere agenti del mondo di domani.

Ho cercato di motivare il pessimismo di questo contributo con argomentazioni tanto banali, quanto per contrasto forti, data la loro provata autenticità, elencando i sintomi, ma non conoscendone, e me ne scuso, i rimedi.

Sarò lieto di essermi sbagliato, anche se sarà impossibile che abbia il modo di ricredermi o che la realtà mi dia torto, dato il tempo occorrente per il dispiegarsi degli eventi.

Una canzone degli anni ‘60 diceva: “Nel 2000 noi non mangeremo più né bistecche, né spaghetti col ragù, ma l’amore nel 2000 si farà come oggidì, speriam che sia così….

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Van Gennep A. I riti di passaggio. Torino: Universale Bollati Boringhieri, 1999.

2. Mauss M. Saggio sul dono. Torino: Einaudi, 1965.

3. De Martino E. La fine del mondo. Torino: Piccola biblioteca Einaudi, 2019.

4. Saitta P. Covid-19 un oggetto culturale e politico. Il lavoro culturale, ilavoroculturale.org

5. Rossini S. Pazienza, La parola, L’Espresso 7, Milano, maggio 2021.

6. Moretti C. Il senso della colpa ai tempi del Covid-19. Milano: Nottetempo, 2020.